Appunti di Viaggio

APPUNTI DI VIAGGIO 

IL MIO CAMMINO LUNGO IL “SENTIERO DEL BRIGANTE”

di Giulia Pezzano

Ho pensato a lungo se condividere questo articolo o meno, oscillando tra il timore di scadere nella becera autocelebrazione (il gusto del like è come la carne umana, dicono che se la provi non la lasci più, e in fondo sono solo umana, troppo umana) e la voglia di apporre una doverosa e agognata chiosa finale alla mia esperienza in terra foresta.

E già mi cala la lacrimuccia. Dovete sapere che avevo preso un biglietto, datato 7 maggio, di sola andata per Treviso Sant’Angelo… É nel cestino. Nella carta, per l’amor di Dio, in ossequio al baluardo nordico della differenziata e dell’uso dei bidoni invece che dei ponti… scusate ma questa frecciatina dovevo lanciarla…

Anche se sono innamorata del sud non significa che abbia i paraocchi! Sono arrivata al punto di sognare di insultare gente che getta rifiuti per terra!

Digressione a parte (stream of consciousness is the way), non ce l’ho fatta. Sono ancora qui. Forse pecco davvero di quel romanticismo da Grand Tour che mi è stato attribuito. O forse il cammino mi ha irrimediabilmente cambiata. La montagna che non conosci fa sempre paura. 
Ho visto boschi in cui mi aspettavo di veder spuntare folletti da ogni albero, mi sono persa in quartieri in cui mi aspettavo di veder spuntare ombre da ogni angolo. Ho attraversato fiumare di sguardi curiosi e di parole accoglienti, imparando con umiltà dai tanti che hanno avuto la pazienza di insegnarmi. Mi sono fatta strada tra i rovi, scoprendo che gli strumenti migliori e preziosi sono quelli ricevuti in dono. Mi sono persa in silenzi che colmavano ogni pertugio dell’anima e in muti sguardi di una felicità assordante,

Sono stata accolta come una regina secondo quel rito sacro, inspiegabile, sconosciuto, ancestrale e prodigioso che chiamate ospitalità.

Il mio cuore nordico, produttivo, ottimizzante, algido, giudicante, si è trovato inizialmente spaurito, imbarazzato e sperduto di fronte a tanta immensità. In fondo quel cuore era giunto qui per caso, quasi per scommessa, esattamente dagli antipodi d’Italia. Era arrivato con una tenda e un’incoscienza forse disarmante, sfidando testardo ogni pregiudizio che sapeva di tanto paventata quanto inesistente esperienza.

Imperterrita, ho continuato a camminare, a scoprire, a innamorarmi, da piccola esotica ostinata polentona che sono. Ad ogni passo, invece che stancarmi, mi alleggerivo.
Ho lasciato lungo la strada tutto ciò di stonato che mi era stato insegnato e che mi zavorrava, causandomi quell’inspiegabile nausea esistenziale: il pregiudizio, il senso di superiorità, la produttività quale unico metro di giudizio del valore di un uomo, la prevaricazione come unico modo di emergere, il successo e il benessere (notate quanto sia tragica l’accezione prettamente economica di questo termine etimologicamente stupendo) quale scopo primario dell’esistenza, l’individualismo nelle sue infinite declinazioni (egoismo, arrivismo, noncuranza degli altri, amicizie pront-a-porter), la posizione economico-sociale (con tutti le annesse e connesse esibizioni di suddetta posizione quali barca, suv, villetta, piscina in un climax ascendente potenzialmente infinito).

Non me ne voglio più andare. Il mio cammino, fisico e metaforico, mi ha insegnato la lezione più importante che abbia mai appreso: l’umanità.

La fiera semplicità della vostra gente, l’umile bellezza degli sguardi che ho incontrato, la genuina imperfezione… La bellezza di una melodia risiede anche nelle note stonate…
Come la guerra che avvelena e dilania l’anima dei miei coetanei, straziati dall’amore per la propria terra ma costretti a scegliere il sogno Americano sub speciem di un puzzolente monolocale a Milano…

La profonda ferita, che non penso si rimarginerà mai, nello sguardo nostalgico dei tanti che mi hanno parlato con commovente orgoglio delle ferriere di Mongiana, delle O.M.C., delle giornate lavorative di 8 ore e delle pensioni di anzianità, dell’istruzione gratuita, delle terre ai mezzadri… E l’ombra che oscurava loro lo sguardo parlandomi di Lombroso, di Fenestrelle e San Maurizio, della tassa sul macinato, di “Sparate sui contadini!”… Cercando di farmi capire cosa si potesse provare ad essere una vera e propria colonia, a veder razziata e depredata la terra dei tuoi nonni, la terra dove sei cresciuto, immolando i fiori all’occhiello di una cultura fiorente sull’altare di una sbandierata grottesca unità…

Mi sono persa, lo so. Ma non ho pretese di organicità né di sistematicità. L’unica pretesa che ho è di continuare a mostrare a chi vorrà davvero vedere la faccia migliore e più vera di un popolo, il volto dei tanti, dei più, che con fatica, con costanza e con amore non si arrendono ad un contesto difficile e lottano per ridare alla propria terra amata lo splendore, la fama e il valore che merita. Grazie per gli insegnamenti che mi avete dato. Grazie per avermi aperto gli occhi. Il re è nudo.

E io sono ancora qua. Mannaia.

IL BOSCO INFINITO

ricordo semi-serio di una passeggiata in Aspromonte 
di Manuela Curioni

Metti un escursionista del Nord.
Un tipo sveglio, preciso, uno di quelli che quando deve partire per un’escursione prepara lo zaino la sera prima e nello zaino ci mette giacca a vento, pile, sotto pile, maglietta di ricambio, occhiali e cappello, e poi guanti, bandana, barrette, crema solare, copri zaino, mantellina, acqua da bere e panino col salame, perché il salame, si sa, in un’escursione in montagna non deve mai mancare.

All’attivo quest’uomo (o questa donna, se assecondiamo le tendenze degli ultimi anni) ha escursioni di tutto rispetto compiute tra la Val d’Aosta e il Trentino e se poi ha la sfortuna di vivere in pianura, condizione che rende le ‘sue’ montagne simili a ricamo sopra l’orlo dell’orizzonte, è certo che nel suo curriculum siano finite anche un bel po’ di vette lombarde.

L’escursionista del Nord è cresciuto respirando il culto per l’alpinismo eroico nelle sacre stanze del CAI e ancora ricorda le alzatacce domenicali alle quattro del mattino per trovarsi in piazza ad aspettare il pullman, quando andare in montagna era un rito collettivo e nessuno si sognava di farlo usando l’automobile.

Ora, metti che questo escursionista del Nord senta parlare un giorno di un percorso dal nome insolito, Il Sentiero del Brigante, collocato in un territorio semisconosciuto – benché di larga fama – come l’Aspromonte di Calabria, terra di passaggio che lui fatica ad associare alla parola montagna. E infatti l’associazione non c’è, perché malgrado l’esistenza del Parco Nazionale dell’Aspromonte l’altezza dei suoi rilievi non supera i 2.000 metri (ci prova invano il Montalto fermandosi però, a dispetto del suo nome, a 1.956 metri) e al di sotto dei 2.000 metri, agli occhi di un escursionista del Nord, non si può proprio usare l’appellativo di montagne: si può chiamarle cimuzze o cimette, panettoni e montagnole, punte o pinnacoli, culmini e sommità, ma definirle montagne questo proprio no!

Malgrado la questione dell’altezza l’escursionista del Nord si scopre curioso di fronte alla possibilità di camminare così lontano da casa e decide che per una volta nella vita si vanterà con gli amici del CAI non di essere salito bensì di essere disceso, tanto che adesso il solo pensiero di prendere un aereo per andare a camminare incomincia a mettergli un non so che di allegria.

Così l’escursionista del Nord affronta i mille chilometri che lo separano da Reggio Calabria, dove deve ammettere che la bellezza plastica dei Bronzi di Riace regge il confronto con il David di Michelangelo, si lascia tentare da un pasto a base di brioche e gelato – un vero azzardo culinario per chi la brioche ha imparato ad associarla soltanto al cappuccino – e poi si infila sul pullman per Gambarie, intruppato in un gregge di escursionisti che, ancora non lo sa, diventeranno i suoi compagni di viaggio lungo il Sentiero del Brigante. E proprio su quel pullman fa esperienza per la prima volta di cosa voglia dire vivere in una terra dove le più elementari regole della convivenza civile possono saltare per una cosa banale come l’aver terminato i biglietti per una certa destinazione, una cosa che al Nord – sarebbe pronto a giurarlo – proprio non succederebbe mai.

Ma qui siamo al Sud e siccome anche quello per Gambarie è un pubblico trasporto, la bigliettaia s’ingegna a tirar fuori i biglietti per un’altra località smerciandoli ai passeggeri che devono pur avere un titolo di viaggio e poco importa se alla fine, a Gambarie, scenderanno passeggeri autorizzati e altri che avranno pagato soltanto per circolare tra i quartieri di Reggio, da Cataforio a Ortì.

A Gambarie l’escursionista del Nord riconosce il profumo dei pini secolari ma non fa in tempo a immergersi in quell’atmosfera un po’ decadente delle località di villeggiatura degli Anni Sessanta che ad aspettarlo al ristorante Il Bucaneve trova un cenone degno di Capodanno.

E insieme al cibo anche l’accoglienza del Gruppo Escursionisti d’Aspromonte che ha organizzato l’avventura lungo il Sentiero del Brigante: accoglienza di prima categoria, con tanto di Carta del Camminante da timbrare e maglietta del Sentiero.

L’escursionista del Nord trova conferma al suo pregiudizio sul gusto un po’ barocco che da sempre contraddistingue i meridionali e intanto si rimpinza di polpette di melanzane, frittelle di pesce stocco e primo sale pastellato, soccombe sotto una valanga di maccheroncini di pasta fresca con note di nduja e di ricotta, per finire arreso davanti al filetto di un maialino al sesamo tostato.

Tanto smaltirò tutto durante il trekking” pensa l’ingenuo escursionista abituato ai minestroni dei rifugi sotto il Monte Rosa e dalla camera con vista sull’isola di Stromboli si gode il silenzio di quella prima notte aspromontana.

All’appello del giorno dopo manca una decina di persone: la colazione è quasi un altro pasto e le partenze all’alba sono già un ricordo strano. A poche centinaia di metri da Gambarie la comitiva si immerge nel bosco che circonda l’abitato e da subito l’Aspromonte diventa una foresta di faggi, lecci e pini calabri, una boscaglia che dà ombra e tregua a chi cammina lungo i suoi tratturi e che sa regalare porcini di gran razza a chi ha l’occhio lungo dell’andar per funghi.

L’escursionista è uno in mezzo a tanti ed è bello scambiare i nomi e le esperienze, scoprire che l’Italia è ben rappresentata e che non c’è soltanto il Nord che ama camminare. Le ore sgocciolano via come ciliegie, dapprima ciarliere e un po’ curiose su quella flora che non sembra dar ragione di un nome altisonante, perché l’Aspromonte, a chi non lo conosce, evoca sentieri aspri di roccia e vento; poi le ore del giorno si fanno rallentate e quasi sazie di un sottobosco che sembra non finire, dove non ci sono passi né cime e neppure alpeggi abbandonati a segnare quanto cammino è stato fatto e quanto resti ancora da fare.

Alle cinque del pomeriggio l’escursionista del Nord si avvicina alla guida e trova il coraggio di formulare la domanda che serpeggia nella mente di tutti i partecipanti.

«Manca tanto al rifugio? Perché vedi, guardando qui sul cellulare, l’applicazione mi segnala che siamo ben oltre i 16 chilometri della tappa odierna…saremmo già a 20, forse 21 chilometri…insomma non riesco a spiegarmi questa lunghezza visto che sul programma…»

«Quanto manca di preciso non lo so, forse sul programma c’è stato un errore di battitura, ma io, per me, son arrivato – taglia corto la guida con fare sornione – sento l’odore del rifugio e quando sento l’odore del rifugio, possono volerci ancora due ore ma io, per me, sono arrivato.»

L’escursionista del Nord resta interdetto per quelle parole che dicono e che non dicono, parole che ti fanno intravedere una conclusione per poi scippartela da sotto il naso un istante dopo, come se la fine della tappa assomigliasse più a un miraggio che a una certezza.

Alle ore 17,45 il bosco che è iniziato a Gambarie e ancora non dà segni di voler finire si spegne all’improvviso. L’escursionista volge lo sguardo a ovest: là dove un attimo prima si infilavano i raggi del sole a creare magie da fata adesso trova solo un esercito di nebbie che avanzano al galoppo fino a conquistare l’altopiano.

La nebbia in Aspromonte? A luglio?” si interroga sconsolato l’escursionista del Nord, che una tale cortina di bambagia non vedeva da anni neppure in Val Padana.

Intorno a lui le anime del bosco hanno assunto un’aria minacciosa, al pari delle pietre e del sentiero che spiana senza portare in apparenza da nessuna parte. L’immagine di un bosco dolce si è frantumata in un istante e per la prima volta ode, in lontananza, l’eco del fiato corto dei briganti in fuga, pronti a barattare l’agio di una casa calda per un sogno pazzo di libertà.

Un’altra mezzora col cuore in gola e l’escursionista giunge finalmente a destinazione.

Adesso lo riconosce anche lui l’odore del rifugio, che non è soltanto il profumo dei maccarruni o delle polpette alla mammolese: è l’odore di funghi di quel bosco infinito che si è rivelato essere l’Aspromonte, l’odore di muschio che gli ricorda umidori baltici; è lo scricchiolio del fogliame già secco sotto la suola delle scarpe e la trasparenza lucida dei tappeti di felci; è il gioco delle lame di sole che si infilano nella foresta scaldandola di presenze fatate ed è l’odore di pioggia appiccicato alle nebbie calate sul far del tramonto, a illuderlo che all’orizzonte non ci siano distese di mare bensì prati e colline, come se i Piani di Carmelia si trovassero in Scozia anziché sul finire dell’Europa.

Al Rifugio Biancospino un giardino fiorito attende l’escursionista come un’oasi nel deserto. Nulla da invidiare a uno chalet tirolese, con cespi di margherite e lavanda ancora in fiore, con rose e alberi da frutta e con il calore familiare di qualcuno che ha trovato il coraggio di lasciarsi alle spalle le connessioni virtuali per tornare a vivere in contatto con la natura.

Dopo cena, l’escursionista del Nord si accoccola sotto le stelle, riconosce il Carro dell’Orsa Maggiore e apprezza il calore del pile che, contro ogni aspettativa, l’Aspromonte impone.

Nella mente risuonano i racconti sui briganti che hanno infestato e amato quella terra e infine, libero da etichette e pregiudizi, può godersi il meritato riposo dopo quella lunga passeggiata nel bosco e sentirsi finalmente a casa, malgrado resti un escursionista del Nord capitato quasi per caso in una terra così vicina all’Africa che ogni starnuto di scirocco la riempie di sabbia rossa del deserto.

Ma non sono i punti cardinali a fare di un territorio il luogo in cui sentirsi a casa, bensì il sorriso della gente e il suo modo di dirti buongiorno.

 

SULLE TRACCE DEI BRIGANTI, NELL’ASPROMONTE CHE SA DI MITO

di Franco Chiaramonte

Eccoli i Briganti! Eccoli si avvicinano! Le ombre, i volti asciutti, gli sguardi duri. Banditi, vendicatori, ribelli. Comunque contro! Contro un mondo in cui non hanno spazio se non conquistandolo con la forza. Un mondo in cui non avrebbero storia se non imponendone una scritta da loro… a qualunque costo.

Quando lasciamo Reggio Calabria per salire lungo le strade dell’Aspromonte i Briganti di ieri (mito e fascino) e quelli più recenti (banditi crudeli) li sento, anche se non li si incontra più, anche se il tempo li ha cancellati, o ne ha spostato l’azione, e ci ha lasciato tracce che popolano il mio immaginario di camminatore che aspetta di percorrere questi sentieri.

Poi l’Aspromonte si rivela. Paesaggio antico che ha ospitato storie di popolazioni, con i loro dei, miti, banditi ed eroi, guerre e luoghi di riscatto. Paesaggio che sembra quasi indifferente allo scorrere del tempo. Boschi mossi dal vento e dal soffio delle storie. Meraviglie e suggestioni, ombre e inquietudini. Funghi che popolano il sottobosco; funghi che possono deliziare e avvelenare, perché devi conoscerli per goderne o starne lontano.

Poi c’è Marta, che, dopo un giorno, ha male ai piedi e non cammina più con gli scarponi. Marta che mette sandali e calzettoni perché non ci si ferma! E allora è pellegrina in Aspromonte, pellegrina per chilometri, sino a quando torna, con i sandali ai piedi, nella città del passeggio.

E ci sono le felci. Alte, distese su pianori che si perdono in mezzo a foreste. E guardi e vedi un altro mondo, un altro tempo, e te le immagini popolate di altri esseri.

Poi c’è Andrea. Che non è di Roma: è Roma. Alto come un centurione, che ti guarda in sottecchi ammiccando. Sempre avanti al gruppo che diventa legione.

E ci sono i larici, i pini, gli abeti, il profumo del bosco. E c’è anche la nebbia che a volte sfuma il gruppo che si sfilaccia.

Poi c’è Sandro, il narratore, guida, consigliere, forse spirito di queste foreste, temporaneamente prestato ai camminatori.

E gli animali veri che popolano questo modo, li senti, anche se non li vedi, incontri le orme, ne osservi il movimento nel cielo.

Poi c’è Annalisa. Che è di Verona e parla con frasi che sono sempre in crescendo, di tono, quasi a metterti in riga. E Cosetta che è stupita. Cinzia che non alza mai il tono, ma è precisa.

Vincenzo che sta qui e li, guarda tutto ed è pronto di spirito.

E Domenico, che ha il passo che sembra non faticare mai e parla di funghi e di finanza e raccoglie tracce e segni del nostro passaggio.

Lavinia che cammina sempre a fronte alta. Antonio che è orgoglioso di questa terra che ha lasciato per andare al nord da sempre, ma che è sempre sua. Loredana tormentata dal faticare e dalla consapevolezza.

E Menia che fa il Sentiero, ma fa anche altro: scrive, intraprende, combatte, contro la fatica e la corrente. Ed è tosta, e ha gli occhi che sorridono.

Poi c’è Nicola, che sta in fondo e allarga le braccia come a raccogliere il gruppo e le storie per raccontarle e cantarle in un altro viaggio.

E poi tanti altri, 23, che hanno incontrato i boschi, le leggende, i racconti. Hanno vissuto assieme bene, senza conoscersi, anzi conoscendosi subito, come fanno le donne e gli uomini che amano condividere e donarsi del tempo, e cercare nell’incontro con altri il piacere più importante della vita. E hanno conosciuto Antonio Barca, figlio di Annibale, con il suo cane Amilcare, chissà se lontano discendente di quell’Annibale Barca che di qui non è passato, ma ci si sarebbe trovato bene.

E c’è l’Aspromonte, ospitale, che ha mostrato la sua ricchezza e i suoi meravigliosi sapori, ha indicato i mari in lontananza, ha svelato sculture di muschi e tronchi, non ha nascosto le cattiverie che gli uomini possono fare. Ha interrogato i camminatori quasi allargando le braccia, come Nicola, per raccogliere e cercare di capire e cambiare, perché si racconti l’Aspromonte con i suoi silenzi e il respiro antico e la bellezza e il piacere di scoprirla e viverla, come la gente bella, come i miei compagni di viaggio. Si torna ottimisti, con l’Aspromonte e le persone negli occhi e dentro di noi.

 

GRAZIE ASPROMONTE

di Cinzia Migliorini

Quando sono partita non avevo aspettative, mi sono lasciata andare a questa nuova avventura. Mi sono trovata in un gruppo di persone sconosciute ad affrontare un percorso che durava una settimana. E in questo periodo di tempo ho potuto immergermi nel verde delle felci, nei boschi di faggi e degli abeti bianchi. Nei profumi dei funghi e delle foglie secche in cui sprofondare.

E c’eravamo solo noi 22 che abbiamo incominciato a conoscerci nei vari aspetti delle nostre personalità. Con lo spirito di aiutarci reciprocamente e di spronarci, nelle difficoltà del percorso.

Le nostre guide hanno saputo trasmetterci il vero spirito con il quale si affronta la montagna e le scomodità che qualche volta si presentavano.

Ci hanno accompagnato in questa esperienza umana che ricorderò sempre con serenità e leggerezza. 

Ed è per questo che ringrazio tutti con tutto il mio cuore.

IL TREKKING DEI MIEI SOGNI

di Cosetta Bianchin

Ho un po’ di tempo e la mente ancora fresca di tanti ricordi, perciò colgo l’occasione per scrivere le mie impressioni.

Ho visto su facebook l’annuncio del percorso e ne sono rimasta subito affascinata. Dopo aver contattato Nicola che mi ha inviato tutto il programma, non ho avuto più dubbi!

Era il trekking che sognavo di fare.

Ero talmente entusiasta della cosa che, parlandone con conoscenti e amici, sono riuscita a coinvolgere in questa splendida avventura anche Cinzia Annalisa e Marilena !

Già dal primo giorno ho respirato l’aria gioviale di tutto il gruppo. Mi sono trovata subito in sintonia con tutte le persone. Persone che come me avevano voglia di immergersi dentro una natura bellissima ed incontaminata. Essere un tutt’uno con essa.

Ricordo l’entusiasmo del primo giorno! Sembravamo dei bambini!

Ogni piccola cosa…. un fungo…. un fiore ci entusiasmavano, tanto da preoccupare Nicola che vedeva davanti a noi tanti chilometri. Alla fine però è riuscito a metterci in riga eh eh !!

Quando, quello stesso giorno, quasi alla fine del percorso, siamo stati avvolti dalla nebbiolina e dai raggi del sole che si facevano posto tra i rami degli alberi, beh credo di aver toccato la felicità!

Mi sembrava di essere in un posto magico che mi accoglieva e mi avvolgeva. E’ stata una sensazione bellissima, mai provata prima!

C’eravamo solo noi e la natura ed eravamo un tutt’uno con essa! Fantastico!

Anche i giorni successivi non sono stati da meno!

E’ stato un susseguirsi di paesaggi bellissimi avvolti da felci, alberi di varie specie, bellissimi ruscelli, laghetti di montagna! Mai mi sarei aspettata di trovare una Calabria così verde. 

L’ospitalità delle persone del luogo è stata squisita!

Anche dove abbiamo dovuto adattarci parecchio, abbiamo capito che loro ti davano quel poco che avevano con il cuore e questo ci ha frenati dal lamentarci per non aver trovato le sistemazioni ideali.

Man mano che passavano i giorni, l’affiatamento tra noi si è fatto sempre più forte e anche piccoli screzi iniziali si sono sopiti, formando un gruppo affiatato e collaborativo.

Camminare tante ore ti da anche la possibilità di rifugiarti in te stesso e nei tuoi ricordi. Ti fa assaporare una leggera malinconia che accetti con piacere perché anche lei fa parte di te e della tua vita.

Io amo da sempre camminare in mezzo alla natura, mi rilassa e questo trekking è stato l’ideale per apprezzare appieno la vita.

Grazie a tutti voi.





IL CAMMINO DEL CUORE

di Annalisa Giacomello

Sono partita per questo cammino senza sapere cosa aspettarmi, lasciandomi semplicemente coinvolgere dall’entusiasmo di Cosetta, già iscritta assieme a Cinzia, e da quel pizzico di voglia di avventura che accomuna me e mia sorella Marilena.

Fin da subito è stato come immergersi in un’altra dimensione, con ritmi e regole a me sconosciute e talvolta incomprese. Un gruppo disomogeneo per provenienza, età e cultura si è immediatamente compattato, aiutato e sostenuto.

Ricordo con piacere le chiacchierate nei boschi, Domenico e Antonino perennemente a caccia di porcini, i formidabili apripista che usavano il bastone a mo’ di macete, la delicatezza di Bruno, le risate in compagnia, le cene succulente, la doccia tipo Auschwitz e quella tiepida con la canna dietro al paravento, le notti trascorse con compagni sempre diversi e quella nello stanzone comune, il filo per la biancheria che Andrea concedeva sempre a tutti, le partite a carte ed i balli di gruppo, le domande di Vincenzo e le punzecchiature con Guido.

A ricordo mi rimangono le fotografie che ho scaricato sul mio computer con i bellissimi primo piano scattati a nostra insaputa e le immagini di un territorio lungi, per me, dall’essere stato immaginato.

Che dire degli organizzatori: ricordo Sandro per la competenza, pazienza e il non chalance, Nicola per i suoi silenzi e le sue estraneazioni, Enzo per la sua disponibilità.

Questo cammino mi ha incantato e lo porterò sempre con me.

  • Le spoglie di Nicolai riposano, ignorate dai più, nella piccola chiesa di Monserrato, fuori Gerace. 

    L'Ultimo Testimone

    Sandro Casile
  • E’ un continuo perdersi per ritrovare sé stessi.

    Nelle Parole del Vento

    Lilla Sturniolo
  • E c’eravamo solo noi 22 che abbiamo incominciato a conoscerci nei vari aspetti delle nostre personalità. Con lo spirito di aiutarci reciprocamente e di spronarci, nelle difficoltà del percorso.

    Grazie Aspromonte

    Cinzia Migliorini

L’ULTIMO TESTIMONE

di Sandro Casile

Arriviamo all’imbrunire lungo la ripida discesa che viene giù dai Piani di Crasto.

I resti del vecchio mulino ad acqua si confondono ormai con la rigogliosa vegetazione e le lunghe ombre dei monoliti si distendono per la stretta valle che accoglie le acque della fiumara Novito e Pachina. Canolo sembra già addormentata. Il silenzio regna tra i vicoli del vecchio abitato e dalle case, addossate le une alle altre, non traspare alcun segno di vita: niente voci, niente luci, niente fumo dai camini.

Siamo smarriti e ci chiediamo perché un pittoresco Paese di montagna, di antiche origini, incastonato in un territorio benedetto dalla natura, sia destinato a seguire la sorte di tanti altri Paesi d’Aspromonte già ridotti in macerie dalle offese del tempo e di uomini senza memoria e senza scrupoli.

La risposta la troviamo presto nelle parole di un anziano signore che, al nostro vociare, apre l’uscio di casa e, con fare gentile ma deciso, ci invita a entrare per farci ammirare, dice, il panorama di cui si può godere dal balcone della sua più che decorosa abitazione. Osserviamo in silenzio le bianche e svettanti pareti di monte Mutolo, un tempo regno di Italo, il re pastore, le gole della fiumara, le vecchie concerie di Scorciapelle, i numerosi mulini ad acqua, la vallata del Novito che si perde nell’azzurro del mare tra Sidereo e Locri.

Quanta ricchezza ha riservato la natura a questo angolo di terra e quanto abbandono e povertà ha saputo generare l’uomo! Sono poco più di cento, dice il nostro ospite, gli abitanti che mantengono ancora in vita il Paese, la gran parte sono andati via per cercare improbabile fortuna alla marina o nelle fabbriche del nord. Così ha voluto la politica, miope con il Sud e lungimirante con il Nord. Anche noi, prosegue, abbiamo le nostre colpe, perché abbiamo affidato ad altri il nostro destino e ci siamo affrettati ad abbandonare le nostre campagne, le nostre millenarie attività, la nostra cultura e le nostre tradizioni in cambio di falsi miti e di un assistenzialismo che giorno dopo giorno ha minato le nostre coscienze e la capacità di essere artefici del nostro destino. Nessuno nasce più in questo Paese, i giovani sono già andati via e i pochi rimasti non hanno un futuro accettabile e quando, uno dopo l’altro, gli anziani concluderanno la loro vita anche per Canolo arriverà la fine.

L’ora tarda ci impone di andare via e così promettiamo al nostro ospite che torneremo ancora per ascoltare le sue parole e i suoi racconti, ma prima di accomiatarci gli chiediamo della casa natale di Francesco Nicolai.

La nostra richiesta lo sorprende: come fanno, questi sconosciuti, a sapere di Francesco Nicolai se nello stesso Paese pochi sanno della sua esistenza? Ci indica la via da percorrere e chiude lentamente l’uscio per ritornare nel suo mondo di ricordi. E’poco più che un rudere quello che resta del palazzotto dove nacque Francesco Nicolai. 

Ci disponiamo a semicerchio e uno di noi ci parla del personaggio, vescovo e poeta, nato a Canolo nel 1687. Apprendiamo così che Nicolai, figlio di un mugnaio, si trasferisce presto a Gerace per compiere gli studi e successivamente si reca a Napoli e poi a Roma dove si distingue per la perfetta conoscenza della lingua latina.

Il Pontefice lo nomina precettore di lettere latine nel seminario vaticano e, in seguito, va al servizio del cardinale Giulio Alberoni in Romagna e poi ancora a Roma dove presta la sua opera di uomo di cultura al servizio del cardinale Barberini, per il quale cura le relazioni diplomatiche con la corte d’Austria. Membro dell’accademia romana Arcadia, a fianco di illustri letterati del tempo, torna a Gerace in tarda età, probabilmente già vescovo, e fonda una piccola Arcadia. Dopo la sua morte Nicola Angelio cura l’edizione di una selezione delle sue opere pubblicate a Napoli sotto il titolo: Francisci Nicolai Carmina.

Le spoglie di Nicolai riposano, ignorate dai più, nella piccola chiesa di Monserrato, fuori Gerace. 

Si conclude così una indimenticabile escursione che aveva preso avvio nelle prime ore del mattino del 9 di novembre al Piano Mortelle, nei pressi del casello forestale “Barca”, sul Dossone della Melia. I faggi, al Piano Mortelle, emettono già bagliori d’oro e di ruggine e preannunciano l’inverno ma il cielo è azzurro e la temperatura mite.

Ci incamminiamo, con la consueta allegria, lungo il sentiero che scende decisamente verso la valle del Novito. Il faggio, che non ama lo scirocco, lascia presto spazio alla macchia mediterranea che si distende, impenetrabile, lungo le scoscese pareti che delimitano il corso della fiumara che attraversiamo agevolmente prima di risalire verso i Piani di Crasto, delimitati da bianche formazioni di arenaria.

Tra la fitta vegetazione si intravedono le vecchie “armacie”, i muri a secco che raccontato della fatica dell’uomo intento a strappare alla natura, spesso ostile, terre da coltivate, e i resti di innumerevoli case rurali. Tutt’intorno uno scenario di una bellezza primordiale: pareti di arenaria, monoliti che costellano l’orizzonte verso il mare, monte Mutolo con il suo caratteristico profilo che gli ha guadagnato l’appellativo di “Dolomiti del Sud” e il sempreverde manto forestale che si estende fino al Dossone della Melia. Consumiamo la colazione al sacco prima di cominciare la discesa verso il mulino di Ponte della Pietra.

Un anziano pastore ci osserva da lontano, è l’ultimo testimone di un mondo destinato a scomparire tra l’indifferenza generale. 

TURISMO ESPERENZIALE

di Manuela Curioni

Una settimana fa concludevo il Sentiero del Brigante, un cammino nel cuore dell’Aspromonte fino alle Serre calabre.

Turismo esperienziale lo chiamano da quelle parti, a significare che l’aspetto sportivo è solo una goccia nel mare di tutto ciò che il territorio può offrire in termini di natura, storia e accoglienza.

Di questa esperienza mi porterò nel cuore l’eco delle risate dei miei compagni di viaggio e i silenzi degli alberi di un bosco infinito, ammantati di tali muschi, nebbie e tappeti di felci da illudermi più volte di camminare nel Baltico, mentre mi trovavo invece nella parte più sconosciuta del Sud Europa.



TRA CIELO E MARE VERSO TRINACRIA

di Lilla Sturniolo

 

Partire a Marzo è sempre una specie di sfida e di scommessa, eppure eccoci lì lo stesso, all’imbarco mattutino  delle navi traghetto pronti a salpare verso la Sicilia. Ah, la mia terra!

Finalmente la rivedrò, calda di sole e di colori, come la ricordo da sempre. E ad ogni moto di onda, ad ogni squarcio spumoso della prua, lei è più vicina, un po’ più raggiungibile. Abbiamo tutti la faccia un po’ stanca del primo mattino, i capelli inevitabilmente arruffati e quell’aria vagamente brilla che hanno tutti gli assonnati che non vogliono darlo a vedere.

Siamo 16 in tutto, ma a Messina ci uniremo agli amici del CAI.

Al luogo stabilito per l’incontro, troviamo ad attenderci una bella carovana di gente: adesso siamo 63, insieme ai siculi. Velocemente i rispettivi capi delle due comitive, il calabrese inossidabile ed il siciliano immarcescibile, decidono sul da farsi. Risaliamo sulle macchine e dopo un paio di tornanti arriviamo al Parco biologico di Camaro; una delle due guide siciliane ci illustra il progetto con una dovizia di particolari davvero notevole.

Apprendiamo così che questo Centro è in allestimento e che il bosco di Camaro ha alle sue spalle una storia plurisecolare di escursioni, di vicende anche drammatiche e di voglia di ricostruire, nonostante gli accidenti della storia (invasione spagnola) e quelli della natura (terremoti e maremoti). Poco prima l’altra guida ci aveva fornito alcune informazioni sul tragitto: 200 metri quasi in piano, altri 200 in salita. Dopo le terrazze del Centro di Camaro, che verranno popolate di alberi e piantine officinali con tanto di “percorso dell’olfatto”, ci avviamo lungo la direzione di quella terra nera che una delle guide siciliane ci ha detto essere propria solo di quella zona e di altre rarissime del Mediterraneo, tra il Maghreb e la Spagna. E qui non solo la terra, ma tutto è diverso dall’Aspromonte.

E’ come se quel pezzetto di Appennino sprofondato e poi affiorato dalle acque dello Stretto avesse mantenuto una sua vivezza brillante e morbida, dalle linee sinuose dei monti agli occhi blu e viola dei crochi che a centinaia punteggiano il terreno rivolti verso un cielo sfuggente, coperto da cirri densi ed allungati.

Qui tutto ha il colore della Pasqua e del confetto, di una festa di primavera intensa e dolce, tutta nei

Toni del rosa, dell’indaco e del primo verde.

Le prime fasi dell’escursione ci portano gradualmente da un discreto viale di eucalipti dal percorso agevole fino alle prime alture peloritane. In mezzo alle nubi, scorgiamo in lontananza il braccio di mare e le case, i tetti della greca Messena, la Messana latina, la Messina di oggi, anche se gli antichi marinai preferirono intitolarla Zancle, falce, dalla caratteristica forma del suo porto.

La foschia e le nubi addensate non consentono una visuale limpida, ma in mezzo agli intervalli nuvolosi riusciamo lo stesso ad intravedere la bianca punta di Ganzirri da questa parte, ed i contrafforti poderosi di Scilla,

Bagnara e del S. Elia dall’altra, sul versante calabrese dello Stretto.

Per arrivare fin lì ci siamo fatti strada attraverso parecchi tronchi riversi sul terreno, travolti dalla catastrofica furia delle piogge che hanno franato il terreno e devastato i sentieri, ricoprendoli di detriti di ogni genere. L’ultimo tratto è una salita vertiginosa, impietosa; sudiamo ed il vento è gelido, anche quando attraversa la corteccia spugnosa degli alberi di sughero dalle venature azzurrine, verdastre, bellissime. In cima le nubi infittiscono fino a coprire completamente, per alcuni attimi, tutto il paesaggio sottostante. Quando però la stretta morsa della nebbia si assottiglia di colpo, i monti ed il mare appaiono in tutto il loro splendore, in un’alternanza chiara di colline dalle cime piatte scandite da un fitto ricamo di terrazze e di graffiti ordinati e geometrici, simili agli antichi disegni Inca.

Una delle selle attraverso le quali ci siamo avventurati mi era stata mostrata sulla cartina da una delle nostre guide; cerco di capirci qualcosa, ma temo che la mia “esperienza” di escursionista sia ancora una bella favola, che oggi si chiude, dopo i doverosi saluti agli amici del CAI di Messina, con la visita al Santuario di Dinnamare, dove la veduta aerea è tale da mozzare il fiato. La piccola, marmorea pala d’altare con la Madonna si scorge appena nel fitto buio della chiesa, ma quando gli occhi si abituano alla semioscurità, la Vergine col Bambino appare come un tenero traguardo del cuore.

 

Gli irriducibili trovano da scalare anche lì. A volte penso che questo desiderio di altezze altro non sia che nobile volontà di elevazione e di riscatto dalla condizione umana, e credo di cominciare a comprendere un po’ di più quel gesto del mettere un passo dietro l’altro, con fatica, per arrivare a poter guardare infine dall’alto ogni cosa, con la libertà ed il distacco che le si deve da noi stessi. C’è l’umile fierezza, in questo, della più vera umanità. Così mi accade di provare una gratitudine tutta interiore per quello che l’escursionismo mi sta dando: un ritorno, ogni volta, alle vitali radici della gioia e della bellezza pura dell’essere. 

ACQUA!

di Lilla Sturniolo

Domenica, 25 Gennaio: l’escursione questa volta apre verso Gerace. Vengono a prendermi e si ripete la gioia della partenza.

Saliamo verso la Limina ed un verde inatteso copre l’ampia vallata del Torbido; dopo le piogge, il rigagnolo dell’antico letto del fiume è quasi già una fiumara e dai fianchi lussureggianti delle montagne scorrono rivoli fosforescenti di piccole cascate il cui fruscio è attutito dalla lontananza. 

Appena la strada piega in discesa, il mare Ionio brilla dinanzi a noi coi suoi colori quasi estivi e svoltiamo verso Gioiosa Jonica. A Moschetta il gruppo si ricompone; non siamo tantissimi, appena undici persone; con me c’è un’amica alla sua prima escursione e nel suo sguardo mi sembra di cogliere quello che vi era negli occhi di un’altra provetta escursionista al suo primo impatto. Sorrido in silenzio. Lasciamo le auto in una piazzuola del paesino e dopo il consueto cambio di scarpe finalmente si comincia.

Il passo di ognuno è diverso, com’è diversamente disposto l’animo; ci sono i più ardimentosi e i riflessivi. Pioviggina appena e con le nubi che oscurano l’azzurro, di colpo le tonalità, da nitide e brillanti che erano, si fanno terrose, livide, veramente invernali.

Nei punti più aperti della salita arrivano folate fredde ed improvvise di libeccio. Proviamo a coprirci e c’è chi è equipaggiatissimo: sfodera un bel completino giallo limone impermeabile. La pioggia è lieve, ma va infittendo. In lontananza c’è Bruzzano e noi incontriamo dei ruderi di mattoni cotti e poi dei casolari in rovina. Dentro quelle povere mura, che sembrano essere state abbandonate in fretta e furia, vi è la stessa desolazione della campagna. Alle pareti, foto sbiadite di una famiglia di contadini; i volti si distinguono appena, corrosi dal sole, dal vento, dall’incuria. Sono appese alla bell’e meglio; intorno, le stanze parlano di un’intimità domestica violata, le porte inesistenti o quasi. Dal pavimento emerge un bel volto giovane: la foto in bianco e nero di una ragazza in posa col suo orologino da signorina ed i capelli scuri ben pettinati. La osservo. Mi chiedo quale sarà stato mai il suo nome e se il suo destino sia cambiato andando via da quella solitudine inumana chissà verso quale mèta, chissà con quali sogni e speranze. Ora sarà diventata una signora matura, col senno e le noie del tempo; ma in quella foto e per noi lei è rimasta così, giovane ed innocente come il suo sorriso. Esco, la campagna mi chiama.

Quasi tutti hanno un ombrello, ora la pioggia è continua e dopo qualche breve intermittenza pare voglia riprendersi il tempo perduto e cade ancora più ostinata. Tutto il cielo è coperto, nero di nubi nere, ma in quell’oscurità vedo splendere delle rocce bianche incrostate di muschio. Mi arrampico ed il vento infuria, la pioggia mi scaraventa sul viso una raffica di aghi acuminati.

Ma, da lassù, l’incanto della gola solcata in mobili anse dal fiume, le distese verdi di conifere e di querce, le onde possenti delle folate che squassano le cime. L’immenso mi divora coi suoi spazi d’aria e di vuoto. Poco più avanti, una specie di cascina, c’è gente. Due ragazzi, un uomo, una signora anziana contenta come una bambina quando ci vede. Due cani di piccola taglia ci fanno le feste; anche loro sono cordiali.

La località è Iànchina: un deserto, intorno al minuscolo abitato, e neppure una donna giovane. Forse c’era, ci dev’essere stata, quei ragazzi sono evidentemente i suoi figli; forse è andata via o è scomparsa.

E’ rimasta quella anziana, con l’uomo giovane e già così vecchio da sembrare suo marito più che suo figlio. La vecchina ci accompagna. E’ molto arzilla e con molto orgoglio afferma di avere 82 anni; mentre lo dice, i suoi piccoli occhi scuri scintillano di pena. Si sente troppo sola, troppo provata; ed in quello squallore dobbiamo lasciarla, ma dentro qualcosa mi fa male.

Dall’altra parte, lontana in linea d’aria, c’è Gerace, come una cartolina, circonfusa dal nembo etereo di un arcobaleno. Proseguendo ancora, da un’altura marrone svettano impertinenti i Tre Pizzi, intorno ad Antonimina. E intanto piove da matti, al punto che il capo decide di sospendere tutto.

La terra è così intrisa d’acqua che nei lunghi tratti finali affondiamo in un fango chiaro da cui cerchiamo scampo mettendo i piedi sulle piantine basse del terreno. Ma tutto è ormai acqua dentro, intorno, fuori di noi: il cielo, la terra, la vegetazione, persino i sassi che affiorano a stento dal torrente che attraversiamo accanto ad un piccolo, docile gregge di pecore.

Ad ogni passo, sprofondo nel fango; i jeans sono come ingessati nella massa farinosa e le mie scarpette da ginnastica sono solo due pezzi informi di fanghiglia, mi scivolano dai piedi e rischio più volte di perderle mentre cammino. E rido. Rido perchè, comunque, tutto è così bello ed assurdo: la mia amica ed io che scivoliamo, il cielo che è un lago, il vento freddo. Così abbraccio l’infinito e sorrido. A che valeva starsene buoni e fermi davanti ad un camino, e non sentire com’è forte e viva la terra?

Ad Azzurrìa pranziamo sotto un tetto di fortuna, ma io non sono lì. Mentre rientriamo col sottofondo di velluto delle note dei Genesis, di nuovo lo Ionio ci saluta col suo verde acciaio e le spumose creste bianche.

Oggi l’inverno ci ha donato il suo argento ed il cielo la sua piena abbondante: è un tesoro che la mia anima custodisce, festosa e libera come l’aria che ho respirato sui monti.

BENVENUTA ESTATE

di Sandro Casile 

L’appuntamento, come di consueto, è fissato a Piazza Castello. Siamo solo otto, sono in tanti a mancare all’appello. Hanno seguito i consigli del bollettino “metereologico”, diffuso con cadenza ossessiva dalle televisioni che, da diversi giorni, “istruiscono” la popolazione sui comportamenti da seguire in presenza del “flagello” estate.

Un vero e proprio bollettino di guerra che, ora dopo ora, aggiorna le temperature reali e quelle percepite, sempre più alte. Dispensa consigli sull’alimentazione, indica le quantità di acqua da ingerire e i “luoghi sicuri” in cui rifugiarsi per combattere la canicola e, alla fine, invita tutti alla calma: la Protezione Civile è stata allertata!

E’ il 29 giugno, da poco più di una settimana è iniziata l’estate astronomica e già da un mese quella meteorologica, penso che dovremmo essere molto allarmati se in estate non ci fossero più le temperature elevate, reali o percepite che siano.

E’ stato sempre così e mi auguro che lo sia per tanto tempo ancora. Partiamo, nonostante i cattivi auspici, per raggiungere il nostro “luogo sicuro” che abbiamo individuato nell’arco di montagne che hanno il piede nella fiumara Torbido, nei pressi di Mammola e nella Piana di Gioia Tauro, a San Giorgio Morgeto. Arriviamo a Mammola di buon’ora.

Il vecchio paese medioevale appare particolarmente luminoso e ancora assonnato. Ci attardiamo qualche minuto prima di incamminarci lungo l’itinerario prescelto. Il greto della fiumara Torbido è arido, la poca acqua che rilasciano le montagne circostanti è sapientemente incanalata per fini irrigui. La strada di grande comunicazioni Jonio-Tirreno incombe sulle nostre teste e appare come una gigantesca costruzione realizzata con i mattoncini “lego”.

Il silenzio del luogo è continuamente interrotto dal sordo rumore delle gomme delle autovetture a contatto con i giunti strutturali del viadotto. Si intravedono, sui declivi, vecchie costruzione rurali, e tutt’intorno, nei relitti fluviali, alberi da frutto e orti ben curati. Ci troviamo a circa 200 m. slm e imbocchiamo presto il sentiero che si snoda in una fitta lecceta ed appare sufficientemente battuto. Saliamo lentamente, dobbiamo superare un forte dislivello per guadagnare l’apice della dorsale appenninica a quota 882. Di tanto in tanto piccole depressioni del terreno ci permettono di tirare il fiato. Da uno spiraglio, apertosi tra il tipico groviglio di rami e tronchi della lecceta, riusciamo ad intravedere in alto, alla nostra sinistra, una piccola costruzione che le carte topografiche riportano con un nome altisonante, Contrada Principe di Roccella.

E’ una delle tappe intermedie del nostro itinerario, ma prima ci fermiamo per una breve sosta, con ottimo caffè e foto di rito, su uno sperone di roccia, individuato per il diradarsi della vegetazione, che si rivela un singolare punto panoramico. Sotto di noi il nastro d’argento della strada Jonio-Tirreno percorsa da autovetture che sfrecciano nei due sensi di marcia.  Percepiamo appieno la nostra condizione di privilegio: quelle scatole d’acciaio e gli affanni che trasportano ci appaiono molto lontane, per oggi viviamo in un’altra e più gratificante dimensione.

Godiamo del contatto diretto con la natura, dei suoi colori e dei suoi sapori, e coltiviamo rapporti umani resi più solidi dalla condivisione della fatica, del cibo e delle emozioni.

All’ora di pranzo giungiamo in un terrazzamento con una piccola costruzione in mattoni intonacati e copertura in eternit. Accanto una baracca in legno senza porta e un pergolato, sotto il quale è sistemato un tavolo di legno e numerosi ceppi che fungono da sedili. A pochi metri dalla casa una presa d’acqua e un orto che, a giudicare dalle numerose bottiglie di birra vuote che fanno mostra di se sul tavolo, qualcuno curerà.

Ci troviamo in Contrada Principe di Roccella che, naturalmente, non ha nulla di principesco e tuttavia ai nostri occhi quella casa appare quasi regale. Consumiamo il frugale pasto e trascorriamo in allegria i minuti dedicati alla sosta. 

Quando riprendiamo il cammino la vegetazione cambia rapidamente. Il leccio lascia spazio al pino, all’abete e al faggio e il sottobosco, rigoglioso, è punteggiato dal rosso delle fragole che raccogliamo diligentemente. Ci fermiamo per dissetarci alla fontana del Cucco. Ci sono autovetture parcheggiate ai margini della strada e sono in tanti ad attendere il turno per rifornirsi di quantitativi industriali di acqua.

Ci guardano, ci soppesano, verificano lo stato del nostro abbigliamento e subito ci cedono il passo. Sicuramente commenteranno l’incontro con quelle strane persone che, invece di muoversi comodamente in macchina, percorrono a piedi la montagna. Scendiamo verso San Giorgio Morgeto lungo il tracciato della vecchia strada comunale che, in alcuni tratti, si presenta ancora acciottolata e a gradoni.

Ci dissetiamo ad una antica fontana, con edicola votiva dedicata alla Madonna della Montagna, e concludiamo il nostro viaggio con una accurata visita ai resti del castello medioevale che domina, con la sua imponente struttura, il paese sottostante. 

Dopo avere visitato il caratteristico borgo con i suoi vicoli, stretti e lindi, e con gli innumerevoli e pittoreschi scorci, ci concediamo alcuni minuti di relax seduti al bar della piazza a pochi metri dalla fontana monumentale.

Mi colpisce un avviso affisso sulla porta del bar: “per favorire chi vuole consumare in pace e serenità la colazione o altro in questo locale è vietato offrire”. Ho conosciuto questa forma di schiavitù, che è tale per chi da e per chi riceve, e mi sono rallegrato per l’iniziativa con la titolare del bar. Mi ha confidato, sorridendo, che sono in tanti a protestare! (escursione del 29 giugno 2008) 

CONCERTO PER UN SOGNO

di Lilla Sturniolo

E’ alle prime note di “Fratelli d’Italia” che tutti si alzano in piedi. Alcuni si erano accomodati sulle sedie di plastica accanto all’operatore di ripresa di RTV. 16 Agosto 2008, è una notte di luna piena, ma da qui a poco inizierà un’eclisse parziale.

Siamo a Gambarie, sotto la luce indiretta dei riflettori e delle stelle che palpitano sopra di noi nel blu. L’orchestra è arrivata almeno due ore prima del concerto e tutti gli orchestrali provano e riprovano con quella sordina allegra e colorata che sembra un quadro di Kandinskij, coi toni chiari e scuri, i punti e le linee policrome. La gente comincia ad assieparsi, qualcuno annaspa un po’ nella semioscurità.

Il palco per l’orchestra “F.Cilea” del Teatro comunale di Reggio Calabria è stato allestito vicino al rifugio Husky e due guide luminose ai bordi della pista segnano il cammino dal ritrovo fino allo slargo che accoglie il pubblico ed i musicisti.

Gli artisti siedono con la compostezza di scolari ubbidienti, ma tutto il loro essere è concentrato sul timbro degli strumenti che suonano e si piegano su di essi con una dedizione intenta che annulla quasi ognuno di noi che li guardiamo da sotto il palco. Sono sicuramente molto bravi ed è bello notare come si divertono nelle esecuzioni improvvisate prima del concerto: è un gioco, un divertissement che li rallegra e che a noi comunica gioia di vivere, serenità, armonia. Non è un caso che sorridano quando suonano.

Questa notte così straordinaria ce l’ha regalata il GEA; cose, meravigliose, che succedono quando si crede in ciò che si fa e quando si ama la propria terra. Rivedo tanti amici del Gruppo e me ne presentano di nuovi: è piacevole stare insieme, ma non c’è solo questo.

Stasera si verifica per la prima volta un incontro decisivo, una svolta: la natura e la cultura si incrociano magicamente, e ci regaleranno attimi intensi di pura bellezza. E’ ammirevole che i miei amici e tante altre persone siano qui, nonostante il freddo e la scomodità; saremo poco più di un centinaio, ma i volti, seppure debolmente illuminati, tradiscono l’ansia dell’attesa per l’evento che stiamo vivendo e di cui forse non siamo neppure del tutto consapevoli.

La Calabria, grazie ai suoi veri figli, si va ridestando ad una vita che le è veramente consona, il turismo e la cultura.

Dinanzi a noi, la scura sagoma di Monte Scirocco disegna dune e valli dal profilo argenteo sotto la morbida lucentezza dei raggi lunari. Tutto splende, in questo buio. E sono sinfonie di Beethoven, Bizet, Mascagni, Rossini e Puccini: i maestri eseguono sotto l’ottima guida del Direttore R.M. Presutti e le composizioni scivolano nella notte mentre il volto femminile della luna si nasconde per qualche attimo dietro il suo nero merletto di nubi. Spunta timida dietro il monte, una rotonda perla nel mare scuro del cielo. Ascolta anche lei, incantata quasi quanto lo è ognuno di noi.

Le voci delle soprano e del baritono modulano gli assolo con veemenza e dolcezza.

Dopo ogni brano, l’applauso è immediato, sincero. Applaudono tutti, i bambini, i nonni che li tengono per la manina, gli adulti ed i giovani; è un bel momento. Nel volto di tutti un sorriso corale, e, nonostante il freddo sia intenso, credo che il sentimento condiviso sia la gratitudine. E’ meraviglioso quando alla purezza della natura si accostano le voci splendide delle armonie umane, la musica creata dall’uomo, il giusto corollario per queste montagne dall’indomito cuore.

Questa è la nostra notte, una notte di note, certo.

Eppure, è sicuramente anche qualcosa di più. E’ una realtà, un progetto di quella Calabria che ognuno di noi vuole e sogna, una terra in cui vi siano persone fattive, senza la mentalità miope del rinunciatario, persone capaci di avere il coraggio di credere nella forza della cultura e di vedere al di là. Un Concerto per un sogno che cammina a lenti, piccoli ma decisivi passi.

Non si deve aver paura di definirlo col nome importante di futuro, soprattutto laddove vi si coltivano speranze, segni di rinascita e di riscatto, di sana concretezza.

L’ACQUA E LA PIETRA

di Lilla Sturniolo

13 Luglio: si parte di nuovo. Sono un po’ assonnata e l’afa estiva non fa che dare la sua mano santa a questo lieve senso di torpore che sento. Devo sbrigarmi, è tardi e i miei compagni stanno per arrivare a prendermi. Eccoli, sono già davanti al mio portone. Saluti veloci e veloce partenza. Con sgomento, pian piano mi ricordo di tutto quello che mi sono dimenticata di portare… Pazienza.

Oggi partiamo da Ragonà. Attendiamo di esserci tutti e da lì inizia il cammino.

Sarà il caldo, ma la nebbia dei pensieri rifluisce verso il paesaggio a poco a poco e così, quasi senza sapere come, mi ritrovo con gli altri. Vie, strade, voci dei compagni che commentano mentre si sale; mi accorgo che il sentiero mostra subito la natura del terreno. A volte è franoso, ingannevole, vuole tutta la tua attenzione. Così il cervello, le braccia, le mani ed i piedi, tutto è assorbito da ciò che hai intorno.

A volte è arido e secco senza rimedio, crocifisso nella sua desolazione. Intanto l’afa va crescendo ed il respiro è più pesante. Nei boschi che stiamo attraversando le foglie sono immerse in una stasi completa, surreale: giacciono sotto il caldo senza muoversi e noi, sotto di loro, grondiamo.

Siamo un gruppo eterogeneo come il terreno che ora pare aprirsi qualche varco tra i rovi e la macchia, ora si richiude in anfratti in cui il fragore dell’acqua scorre vicino a noi.

E’ l’onda dell’Allaro, fiume rupestre che ci accompagna con la sua schiva armonia.

Ci appare all’improvviso, da un groviglio di rami, dopo che abbiamo udito e seguito da un po’ il suo pacato gorgogliare. E’ fragoroso solo nelle piccole cascate delle briglie che ne raccolgono l’alveo inquieto, spezzato da confluenze e sassi.

Un gran manto verde copre le falde dei monti, ma noi siamo confitti dentro una delle sue fiumare, in una gola accecante di sole, incoronata di cime e rivestita di arbusti dorati. Dopo e più del cibo, l’acqua è il solito primordiale richiamo e c’è chi non resiste: un bagno, i piedi nella fresca corrente, siamo tutti un po’ impacciati e divertiti, quando una strana arcaica immagine ci distrae. Uno dei nostri, per scongiurare il caldo, si è coperto il capo con la camicia; sembra Lawrence d’Arabia e mi pare opportuno canticchiare la colonna sonora del film tra me e me. Come basta poco a volte, solo un po’ d’acqua, per sentirsi più sereni e liberi…

Ma quei monti mi portano altrove e ripenso con intensità al paesaggio. Borboni, bizantini, briganti e bruzi: popoli e stirpi che hanno animato le leggende, le paure, il tempo di questa terra indecifrabile, nascosta come i suoi abitativi.

Ci sono case mimetizzate nel verde simili ad occhi che spiano misteriosi, senza essere scorti, dal fitto intrico dei rami; case a perpendicolo quasi sugli strapiombi, a ridosso di sentieri impervi, impossibili da praticare; orti sorprendentemente ben tenuti in lande semiselvagge; armacìe, prodezza di elementi e sfida, ovvero come averla vinta su un suolo ostinato, che non ti rende mai facile il lavoro e la vita. E poi la caparbietà umana, più forte della natura, che vince sull’acqua e la pietra e le piega, le ordina, le pone a difesa e a rifugio, a modesta ricchezza e bene di famiglia.

E’ questo quello di cui mi accorgo viaggiando a piedi per questi monti tra Ragonà e Fabrizia.

Non c’è spazio, non c’è angolo, né macchia che non racconti e dica più della storia dei libri di cosa sia fatta, qui, la vita umana. Tutto qui è acqua e pietra: dolcezza e brutalità, brutalità e dolcezza.

E non sai se sia più brutale l’acqua o la pietra. Il mistero continua nel colore: acqua dolce e terrosa, pietre color della terra, a scaglie aguzze, a frontoni taglienti, scivolosi e friabili come acqua e ancora massi di granito imponenti guardiani del tuo andare, venati d’argento. L’acqua scivola sotto i piccoli ponti sconnessi e la pietra li regge. L’acqua è fredda ed è tiepida, e ti dà i brividi e ti sazia.

La pietra è la madre che sostiene terra ed acqua, è il cuore di tutto ciò che ammiri intorno a te: le morbide chiome degli alberi, le piccole rane nell’acqua del torrente fra i ciottoli, l’erba molle intrisa di fango sulle sponde sassose, i rifugi di legno timidamente accostati alle pareti di roccia.

Non sai se sia più indomabile l’acqua che leviga dolcemente la pietra o questa che le resiste e cambia, ma rimane.

Che sconvolgente natura. Appena stai per definirla inospitale e selvatica, ti apre le braccia con limpide acque dai riflessi verdi, simili all’Eden; quando invece ammiri l’umile sapienza contadina del campicello decoroso e pulito, poco più in là scopri l’incuria e l’abbandono, o la furia umana insensata che dilapida e distrugge tanta bellezza. E capisci perché le antiche statue dei santi nelle chiese di questi paesi hanno quel volto enigmatico che non ride e non piange e pare quasi trattenere un sospiro.

All’ultima salita che conduce a Fabrizia, appaiono dei pastori; alcuni di loro, sebbene giovani, hanno già quell’aria impenetrabile ed attenta tipica della gente di montagna. Con rozze corde di juta conducono le capre selvatiche che hanno appena catturate ed uno di loro si reca sulla spalla il piccolo del gregge improvvisato.

In che epoca siamo? Forse ci piacerebbe risentire le voci dei vecchi che narrano le loro vecchie storie mentre il cane Rambo si è accucciato ai loro piedi.

Forse anche la tv qui è più silenziosa, grida meno di questo cielo d’acciaio infinito che ti annienta con la sua immensità. Cloto, Lachesi e Atropo sono alle porte del paese coi loro volti ingenui e chiusi, ma più avanti c’è la contadina che ci sorride e ci offre il suo vino: senti che l’acqua e la pietra sono il sangue di questa gente, troppo fiera e nobile per essere scioccamente, frettolosamente giudicata.

E sempre più la Calabria si rivela un universo denso di verità dimenticate, piene di una nostalgia carica dei ricordi di un tempo andato. Questa terra appare come una fanciulla ferita, che si è addormentata tra i suoi boschi e le sue acque.

Ti ha sussurrato un incantesimo che non comprenderai mai fino in fondo e che ti irretisce l’anima. In quell’istante infinito ti conduce con sé, nelle dimore segrete dei suoi regni. E tu sei lì, preso, ostaggio anche dei suoi arcani silenzi.

L’ULTIMO TESTIMONE

di Sandro Casile

Arriviamo all’imbrunire lungo la ripida discesa che viene giù dai Piani di Crasto.

I resti del vecchio mulino ad acqua si confondono ormai con la rigogliosa vegetazione e le lunghe ombre dei monoliti si distendono per la stretta valle che accoglie le acque della fiumara Novito e Pachina. Canolo sembra già addormentata. Il silenzio regna tra i vicoli del vecchio abitato e dalle case, addossate le une alle altre, non traspare alcun segno di vita: niente voci, niente luci, niente fumo dai camini.

Siamo smarriti e ci chiediamo perché un pittoresco Paese di montagna, di antiche origini, incastonato in un territorio benedetto dalla natura, sia destinato a seguire la sorte di tanti altri Paesi d’Aspromonte già ridotti in macerie dalle offese del tempo e di uomini senza memoria e senza scrupoli.

La risposta la troviamo presto nelle parole di un anziano signore che, al nostro vociare, apre l’uscio di casa e, con fare gentile ma deciso, ci invita a entrare per farci ammirare, dice, il panorama di cui si può godere dal balcone della sua più che decorosa abitazione. Osserviamo in silenzio le bianche e svettanti pareti di monte Mutolo, un tempo regno di Italo, il re pastore, le gole della fiumara, le vecchie concerie di Scorciapelle, i numerosi mulini ad acqua, la vallata del Novito che si perde nell’azzurro del mare tra Sidereo e Locri.

Quanta ricchezza ha riservato la natura a questo angolo di terra e quanto abbandono e povertà ha saputo generare l’uomo! Sono poco più di cento, dice il nostro ospite, gli abitanti che mantengono ancora in vita il Paese, la gran parte sono andati via per cercare improbabile fortuna alla marina o nelle fabbriche del nord. Così ha voluto la politica, miope con il Sud e lungimirante con il Nord. Anche noi, prosegue, abbiamo le nostre colpe, perché abbiamo affidato ad altri il nostro destino e ci siamo affrettati ad abbandonare le nostre campagne, le nostre millenarie attività, la nostra cultura e le nostre tradizioni in cambio di falsi miti e di un assistenzialismo che giorno dopo giorno ha minato le nostre coscienze e la capacità di essere artefici del nostro destino. Nessuno nasce più in questo Paese, i giovani sono già andati via e i pochi rimasti non hanno un futuro accettabile e quando, uno dopo l’altro, gli anziani concluderanno la loro vita anche per Canolo arriverà la fine.

L’ora tarda ci impone di andare via e così promettiamo al nostro ospite che torneremo ancora per ascoltare le sue parole e i suoi racconti, ma prima di accomiatarci gli chiediamo della casa natale di Francesco Nicolai.

La nostra richiesta lo sorprende: come fanno, questi sconosciuti, a sapere di Francesco Nicolai se nello stesso Paese pochi sanno della sua esistenza? Ci indica la via da percorrere e chiude lentamente l’uscio per ritornare nel suo mondo di ricordi. E’poco più che un rudere quello che resta del palazzotto dove nacque Francesco Nicolai. 

Ci disponiamo a semicerchio e uno di noi ci parla del personaggio, vescovo e poeta, nato a Canolo nel 1687. Apprendiamo così che Nicolai, figlio di un mugnaio, si trasferisce presto a Gerace per compiere gli studi e successivamente si reca a Napoli e poi a Roma dove si distingue per la perfetta conoscenza della lingua latina.

Il Pontefice lo nomina precettore di lettere latine nel seminario vaticano e, in seguito, va al servizio del cardinale Giulio Alberoni in Romagna e poi ancora a Roma dove presta la sua opera di uomo di cultura al servizio del cardinale Barberini, per il quale cura le relazioni diplomatiche con la corte d’Austria. Membro dell’accademia romana Arcadia, a fianco di illustri letterati del tempo, torna a Gerace in tarda età, probabilmente già vescovo, e fonda una piccola Arcadia. Dopo la sua morte Nicola Angelio cura l’edizione di una selezione delle sue opere pubblicate a Napoli sotto il titolo: Francisci Nicolai Carmina.

Le spoglie di Nicolai riposano, ignorate dai più, nella piccola chiesa di Monserrato, fuori Gerace. 

Si conclude così una indimenticabile escursione che aveva preso avvio nelle prime ore del mattino del 9 di novembre al Piano Mortelle, nei pressi del casello forestale “Barca”, sul Dossone della Melia. I faggi, al Piano Mortelle, emettono già bagliori d’oro e di ruggine e preannunciano l’inverno ma il cielo è azzurro e la temperatura mite.

Ci incamminiamo, con la consueta allegria, lungo il sentiero che scende decisamente verso la valle del Novito. Il faggio, che non ama lo scirocco, lascia presto spazio alla macchia mediterranea che si distende, impenetrabile, lungo le scoscese pareti che delimitano il corso della fiumara che attraversiamo agevolmente prima di risalire verso i Piani di Crasto, delimitati da bianche formazioni di arenaria.

Tra la fitta vegetazione si intravedono le vecchie “armacie”, i muri a secco che raccontato della fatica dell’uomo intento a strappare alla natura, spesso ostile, terre da coltivate, e i resti di innumerevoli case rurali. Tutt’intorno uno scenario di una bellezza primordiale: pareti di arenaria, monoliti che costellano l’orizzonte verso il mare, monte Mutolo con il suo caratteristico profilo che gli ha guadagnato l’appellativo di “Dolomiti del Sud” e il sempreverde manto forestale che si estende fino al Dossone della Melia. Consumiamo la colazione al sacco prima di cominciare la discesa verso il mulino di Ponte della Pietra.

Un anziano pastore ci osserva da lontano, è l’ultimo testimone di un mondo destinato a scomparire tra l’indifferenza generale. 

L’ULTIMO TESTIMONE

di Sandro Casile

Arriviamo all’imbrunire lungo la ripida discesa che viene giù dai Piani di Crasto.

I resti del vecchio mulino ad acqua si confondono ormai con la rigogliosa vegetazione e le lunghe ombre dei monoliti si distendono per la stretta valle che accoglie le acque della fiumara Novito e Pachina. Canolo sembra già addormentata. Il silenzio regna tra i vicoli del vecchio abitato e dalle case, addossate le une alle altre, non traspare alcun segno di vita: niente voci, niente luci, niente fumo dai camini.

Siamo smarriti e ci chiediamo perché un pittoresco Paese di montagna, di antiche origini, incastonato in un territorio benedetto dalla natura, sia destinato a seguire la sorte di tanti altri Paesi d’Aspromonte già ridotti in macerie dalle offese del tempo e di uomini senza memoria e senza scrupoli.

La risposta la troviamo presto nelle parole di un anziano signore che, al nostro vociare, apre l’uscio di casa e, con fare gentile ma deciso, ci invita a entrare per farci ammirare, dice, il panorama di cui si può godere dal balcone della sua più che decorosa abitazione. Osserviamo in silenzio le bianche e svettanti pareti di monte Mutolo, un tempo regno di Italo, il re pastore, le gole della fiumara, le vecchie concerie di Scorciapelle, i numerosi mulini ad acqua, la vallata del Novito che si perde nell’azzurro del mare tra Sidereo e Locri.

Quanta ricchezza ha riservato la natura a questo angolo di terra e quanto abbandono e povertà ha saputo generare l’uomo! Sono poco più di cento, dice il nostro ospite, gli abitanti che mantengono ancora in vita il Paese, la gran parte sono andati via per cercare improbabile fortuna alla marina o nelle fabbriche del nord. Così ha voluto la politica, miope con il Sud e lungimirante con il Nord. Anche noi, prosegue, abbiamo le nostre colpe, perché abbiamo affidato ad altri il nostro destino e ci siamo affrettati ad abbandonare le nostre campagne, le nostre millenarie attività, la nostra cultura e le nostre tradizioni in cambio di falsi miti e di un assistenzialismo che giorno dopo giorno ha minato le nostre coscienze e la capacità di essere artefici del nostro destino. Nessuno nasce più in questo Paese, i giovani sono già andati via e i pochi rimasti non hanno un futuro accettabile e quando, uno dopo l’altro, gli anziani concluderanno la loro vita anche per Canolo arriverà la fine.

L’ora tarda ci impone di andare via e così promettiamo al nostro ospite che torneremo ancora per ascoltare le sue parole e i suoi racconti, ma prima di accomiatarci gli chiediamo della casa natale di Francesco Nicolai.

La nostra richiesta lo sorprende: come fanno, questi sconosciuti, a sapere di Francesco Nicolai se nello stesso Paese pochi sanno della sua esistenza? Ci indica la via da percorrere e chiude lentamente l’uscio per ritornare nel suo mondo di ricordi. E’poco più che un rudere quello che resta del palazzotto dove nacque Francesco Nicolai. 

Ci disponiamo a semicerchio e uno di noi ci parla del personaggio, vescovo e poeta, nato a Canolo nel 1687. Apprendiamo così che Nicolai, figlio di un mugnaio, si trasferisce presto a Gerace per compiere gli studi e successivamente si reca a Napoli e poi a Roma dove si distingue per la perfetta conoscenza della lingua latina.

Il Pontefice lo nomina precettore di lettere latine nel seminario vaticano e, in seguito, va al servizio del cardinale Giulio Alberoni in Romagna e poi ancora a Roma dove presta la sua opera di uomo di cultura al servizio del cardinale Barberini, per il quale cura le relazioni diplomatiche con la corte d’Austria. Membro dell’accademia romana Arcadia, a fianco di illustri letterati del tempo, torna a Gerace in tarda età, probabilmente già vescovo, e fonda una piccola Arcadia. Dopo la sua morte Nicola Angelio cura l’edizione di una selezione delle sue opere pubblicate a Napoli sotto il titolo: Francisci Nicolai Carmina.

Le spoglie di Nicolai riposano, ignorate dai più, nella piccola chiesa di Monserrato, fuori Gerace. 

Si conclude così una indimenticabile escursione che aveva preso avvio nelle prime ore del mattino del 9 di novembre al Piano Mortelle, nei pressi del casello forestale “Barca”, sul Dossone della Melia. I faggi, al Piano Mortelle, emettono già bagliori d’oro e di ruggine e preannunciano l’inverno ma il cielo è azzurro e la temperatura mite.

Ci incamminiamo, con la consueta allegria, lungo il sentiero che scende decisamente verso la valle del Novito. Il faggio, che non ama lo scirocco, lascia presto spazio alla macchia mediterranea che si distende, impenetrabile, lungo le scoscese pareti che delimitano il corso della fiumara che attraversiamo agevolmente prima di risalire verso i Piani di Crasto, delimitati da bianche formazioni di arenaria.

Tra la fitta vegetazione si intravedono le vecchie “armacie”, i muri a secco che raccontato della fatica dell’uomo intento a strappare alla natura, spesso ostile, terre da coltivate, e i resti di innumerevoli case rurali. Tutt’intorno uno scenario di una bellezza primordiale: pareti di arenaria, monoliti che costellano l’orizzonte verso il mare, monte Mutolo con il suo caratteristico profilo che gli ha guadagnato l’appellativo di “Dolomiti del Sud” e il sempreverde manto forestale che si estende fino al Dossone della Melia. Consumiamo la colazione al sacco prima di cominciare la discesa verso il mulino di Ponte della Pietra.

Un anziano pastore ci osserva da lontano, è l’ultimo testimone di un mondo destinato a scomparire tra l’indifferenza generale. 

NELLE PAROLE DEL VENTO

di Lilla Sturniolo

27-07-2008: ultima escursione d’estate. Mi sembra che il tempo sia volato, sospeso ed infinito, eppure velocissimo, da quella mattina dell’11 Maggio in cui mi ero recata per la prima volta ad un’escursione. Non sapevo ancora, non immaginavo ci fosse tanto da scoprire camminando nella natura.

E’ un continuo perdersi per ritrovare sé stessi.

Quando Hermann Hesse parlava del “wanderer”, il viaggiatore che osserva i luoghi del suo peregrinare e prosegue, forse avrà provato anche lui questo senso di estremo smarrimento e di scoperta, di irrefrenabile libertà e di fraternità, incondizionabile, le ali dello spirito librate verso l’immensità.

Ancora non so come sarà altrove, ma l’Aspromonte mi ha dato tanto, più di quanto avessi potuto chiedere. E ripenso con nostalgia a tutte le altre partenze, con i tempi e le cose osservate, i momenti percepiti attraverso il fluire della bellezza dei luoghi, i panorami, i volti, tutti i volti incontrati.

Questo monte esige rispetto e carattere. Ti costringe lungo sentieri inesplicabili, difficili fino alla temerarietà. Non è passeggiare placidamente per i boschi, andare in Aspromonte; pare voglia sfidarti, aspro come il suo nome, chiuso nel suo fitto verde, intricato ed oscuro, ombreggiato ed appena filtrato di sole. Ti dà i brividi tanto è selvaggio, tanto ti eleva l’anima, senza concedersi se non per qualche attimo. Poi ti regala la sua limpida acqua, il suo vento fresco, le sue immense vallate.

Ma rimane sfuggente, e senti che si porterà con sé il suo mistero, non te lo rivelerà mai completamente.

L’Aspromonte appartiene solo a sé stesso.

E’ un luogo di storie perdute in un passato che ignori ma di cui avverti tutto il peso e la forza. Devi mostrargli tutta la tua tenacia per comprendere qualcosa ed affrontarlo come impone, ma è una lotta impari. Ti sorprende sempre.

Oggi ci accoglie su uno dei suoi versanti più problematici, intorno e sopra Polsi. Siamo un drappello piuttosto sparuto e con noi ci sono due ospiti nuovi. Fa caldo, ma qui la temperatura è sopportabile. Dopo una serie quasi infinita di curve e di tornanti arriviamo al casello forestale di Cano. Prima, però, abbiamo fatto una piccola sosta in cui ci siamo cambiati le scarpe. Commetto la grave ingenuità di chiedere se devo calzare gli scarponcini; pare proprio di si. E’la prima volta! Mi sento ridicolmente invincibile, un po’ Mercurio senza caduceo, un po’ stivali fatati delle Sette Leghe, e mi avvio con gli altri.

A Cano alcuni sostano un momento al baretto del luogo per un panino veloce, ma la maggior parte di noi ha già la mente altrove e l’avventura è iniziata, dentro. Ci muoviamo diretti lungo una dorsale che svetta sulla Valle Infernale, dove Butramo e Potis s’innestano, mi spiegano pazientemente. Camminiamo inoltrandoci nella boscaglia. Valle Infernale: mio Dio, è vero. Mettere un piede in fallo adesso significherebbe scivolare sulla pietraia verso un pendio impenetrabile dove nessuno ti potrebbe più rintracciare. Mio Dio, però, che bello.

Mentre procediamo spostandoci tra gli sterpi graffianti e bassi, in un piccolo anfratto sassoso e soleggiato, incontriamo il primo dei demoni infernali posti a guardia del periglioso passo: è un tronco d’albero secco, dai rami torti ed aggrovigliati, simili ad artigli, con un apice simile ad una testa mostruosa. Siamo all’ingresso di un tempio dove colonne colossali sorreggono il cielo, come nelle leggende indiane; siamo dinanzi ad alberi impressionanti.

Quanto è grande la loro circonferenza? Tre, quattro metri, o ancora di più? Li osserviamo pieni di ammirazione; qualcuno li abbraccia, c’è chi prova a scalarli se li incontriamo riversi come giganti crollati al suolo. Sono i custodi secolari del luogo; il biancore esterno della loro corteccia contrasta con la pece scura dell’enorme cavità aperta ai piedi del fusto. Stiamo salendo ancora, gli scivolamenti e le frane si susseguono e la sfida si fa sempre più serrata, come il gioco dei muscoli in bilico tra le pietre ed il vuoto sottostante.

Ai nostri piedi, grilli dalle minuscole ali arancioni e nere sono un tocco caldo di colore in contrasto con l’argento delle leggere scaglie di mica, che rigiro come incantata tra le dita. Sembrano veli madreperlacei di conchiglie di tempi lontanissimi, tutta la zona in realtà richiama ere geologiche remote. Qui la natura si è costruita un suo nido inviolato, qui l’albero in silenzio ritorna terra e la vita ricomincerà daccapo.

Tre monoliti imponenti stanno a valico di un’altura che ci fronteggia: Pietra Cappa, Pietra Lunga, Pietra Castello, e basta guardarli per capire il perché di quei nomi. Di fronte al loro immemorabile tempo, provo uno sgomento profondo: quanti occhi umani hanno incontrato quelle sculture di pietra? Intanto ho ricevuto un regalo: un bel frammento di mica, sfaldato ed argenteo, con una striatura d’arancio e d’oro che fa pensare ai tramonti. Che splendore. Le pietre qui hanno vene rosse, come di fuoco temprato; altre brillano in mille scaglie d’argento.

Uno dei due ospiti si deve fermare ed il Capo con due di noi non prosegue per non lasciarlo solo; l’altra guida della spedizione decide impavido di continuare, avanzando con altri due di noi per un sentiero più difficile che li porterà a Farnìa, dove li riprenderemo.

Siamo ad un’altezza di circa 1.400 metri, il cielo è terso come un grande specchio di cristallo. La musica che arriva dal verde è così intensa che all’improvviso devo cantare. Devo. E’ per il vento, per l’aria.

Questo vento è una colonna sonora che dal bosco filtra dentro i pensieri, vagando tra le foglie ed i tronchi, tra le braccia esangui degli alberi estinti che affiorano dal verde delle montagne. E’ il vento che sussurra dei nuovi venuti, porta la nuova alle nuvole ed il bosco mormora la sua canzone per noi. Il vento raccoglie questi nostri attimi di vita e ci restituisce la sua voce possente che emigra dai rami più alti più su, verso l’azzurro, verso il cielo.

Conduce leggero le nostre inquietudini, cullandoci nel suono vasto e rassicurante delle sue parole come un’ampia marea che si agita simile al nostro cuore. E in questa musica, ogni essere parla, intona la sua voce alle altre. Anch’io canto, ma piano, sottovoce.

Durante il percorso, uno dei compagni mi chiede se ho sentito le parole che dice il vento. Terribile domanda. Non sono riuscita a dire nulla di buono, non potevo. Il vento diceva cose irripetibili, rivolte ad ognuno di noi, personali. Ma tutte le sue frasi erano giochi di luce, pensieri che si scioglievano, musica e bellezza.

L’unica risposta possibile era riprendere umilmente quel canto ineffabile e, nelle sue parole, confondere anche le nostre, così povere, così limitate, e così umane… Ora è tempo di salutare e di andare via.

La linea azzurra della lontananza sfuma l’orizzonte. A presto, rude Aspromonte, signore dell’aria e delle selve.

 

QUELL’IMMANE CIELO SOPRA SAN LUCA

di Lilla Sturniolo

E’ un lungo tragitto quello che percorriamo per giungere fino al paesino di S. Luca.

Le auto si fermano poco più avanti, per il cambio delle scarpe, vicino ad una fresca fontanina con un’ingenua rappresentazione della Signora dell’Aspromonte, Maria SS.ma di Polsi. E’ da quel punto oggi comincia l’escursione. 

Nonostante sia primavera inoltrata, il cielo è incupito e freddo; il vento non spira tiepido e c’è chi si è portato a corredo il provvido maglioncino di lana. Mi avvio con gli altri ed ho la gradita sorpresa d’incontrare gli occhi trasparenti di Suor Pasqualina che partecipa anche lei alla passeggiata di oggi. Siamo un gruppetto piuttosto eterogeneo: ci sono le guide, gli esperti della comitiva, e poi le piccole e grandi frane, alle quali credo di appartenere ormai per diritto acquisito.

Una robusta salita ci attende e ci sono momenti di normale stanchezza.

Come avviene di solito, giunti con tanta fatica fino in alto, la montagna ci restituisce generosa i suoi panorami. Ecco, appena sotto di noi, il nastro morbido, argenteo della fiumara di S.Venere, con le sue anse bordate di sassi albi. Sulla vetta, un mare di pratoline. Sono timidamente richiuse sulle loro piccole corolle bordate di rosso e c’è una mandria col vitellino che allatta.

E’ un’immagine degna dei Macchiaioli e di sicuro Fattori l’avrebbe resa con la sua agreste, calda dolcezza.

Chissà perché invece i miei occhi corrono agli scuri fondali di quinta degli abeti, col loro angolo d’ombra fitta, belli e severi nel loro intenso verde.

Eppure, manca qualcosa. Sento che non è tutto lì; qualcosa d’indefinibile mi sta chiamando. So che risponderò a quella voce sconosciuta.

Stiamo percorrendo un sentiero in mezzo alle radici dilavate di tronchi riversi a terra e di colpo mi appare, fra la lanugine inquieta della nebbia, il vero incontro di oggi.

Io rimango lì, folgorata, a guardare, incapace di dire o fare qualcosa. Un’ombra, ben oltre quella di questo instabile cielo di oggi, costringe il mio sguardo indifeso a percorrere tutta la sua immensità: un gigantesco monolite, un primordiale fratello dal nome crudo ed infelice, Pietra Cappa.

Più in là c’è la corte dei suoi pari, Pietra Lunga e Pietra Castello, eppure assai poco m’importa di loro. Il monolite, lui solo, è carico di un magnetismo assoluto.

Ne contemplo l’altezza stagliata su e su nel cielo, perdendomi con lui nell’azzurra lontananza; ma più osservo, più l’immagine che ho dinanzi sembra inghiottirmi. Habere, non haberi: domina, senza lasciarsi dominare.

Gli giro intorno, ma ad ogni angolazione sono più di tremila pagine di storia e chissà quante altre preistoriche, che mi scorrono davanti ad una velocità impressionante. Nessun lato è simile all’altro. Di qua l’asperità della roccia è stata solo in superficie addolcita dalle piogge, dal vento, da un tempo immemorabile che lo ha scalfito senza abbatterlo. Così la sua pelle di pietra è liscia e lucente, con inaspettati guizzi di rosso.

Poi mi sposto e Pietra Cappa cambia, diventa grotta e rifugio, forse riparo per uomini e bestie, con alveoli irregolari che bucherellano una parte del suo immane corpo. Vi ebbero dimora, mi dicono, i medievali monaci di S. Basilio. Ma la Pietra è eloquente, di gran lunga più inafferrabile e misteriosa di ciò che si sa di lei.

L’idea che mi suggestiona è che possa risalire a qualche lontanissima era geologica, quando la terra neppure conosceva una sola impronta umana.

Sfiorandolo appena, è come se il gigante liberasse da sé una selva affollata di parole, di lingue sconosciute, di volti e figure, centinaia e centinaia di braccia e di occhi che nel tempo l’hanno circondato col medesimo, intatto stupore. Più avanti, i resti diroccati di un’antica chiesa basiliana e su di un versante poco lontano anche quelli di un greco palmento, dove il rigagnolo rosa dell’uva pigiata si raccoglieva, fra i canti delle fanciulle, in una conca di pietra levigata ad arte. Ma, per me, niente vale la Pietra. Vorrei mille volte tornare a lei e so che altre mille mi direbbe nel suo muto codice qualcosa di diverso, di grande, qualcosa che inevitabilmente cercherei di comprendere o anche solo d’intuire.

Lascerei pure che l’acqua e la neve mi ricoprissero in un lampo, pur di risentire ancora le sue voci, alimentando il mio desiderio di capire invece di spegnerlo allontanandomi da lei. Lo faccio con una sofferenza senza nome. Vorrei sedermi alla sua ombra, studiarne con calma il profilo così sfuggente: troppo mi dice e troppo poco tempo ho per lei. Tutto è così veloce, ed io devo andare via.

Ma una cosa rimane ferma in me, con la saldezza di un monoide privo di vuoto. Solo in Calabria, solo qui, la Pietra poteva emanare la sua essenza, sotto un cielo privo di allettamenti, difficile all’abbandono ed indomabile. Già, proprio come la sua gente. 

UNA ESCURSIONE TRA STORIA E NATURA

di Enzo Misiani  

Domenica 15 giugno 2008 ci siamo ritrovati in dodici escursionisti a Santa Cristina d’Aspromonte per percorrere e conoscere un altro piccolo lembo di territorio aspromontano.

La nostra uscita è iniziata intorno alle ore 9.30. Abbiamo cominciato a scendere verso un vallone ricco di vegetazione. Giunti a valle, c’era un fiumiciattolo con un vecchio mulino abbandonato. Attraversato il fiumiciattolo è iniziata la salita verso il crinale. Subito ha attratto la nostra attenzione un albero di more di gelso.

Abbiamo riempito una busta di grosse more che hanno soddisfatto i primi languori di stomaco.

Nel salire siamo passati fra grossi alberi di ulivo, di tanto in tanto abbiamo incontrato anche alberi di ciliegio e di fico. In cima alla montagna si intravedeva, alla nostra destra, il piccolo paesino di Piminoro; più su del quale spiccavano i grossi alberi di Zervo’ e Palazzo, tutte località che arricchiscono il cuore dell’Aspromonte. Andando avanti sulla nostra sinistra e di fronte si proietta tutta la piana di Gioia Tauro con tutti i suoi piccoli paesi, alcuni dei quali, inondano la vallata col suono delle loro campane, sembra un’orchestra di suoni, cessati i quali il silenzio torna ad accompagnare il nostro cammino! Dopo alcuni chilometri di crinale, ricominciano di nuovo gli ulivi, l’ombra dei quali ci ristora. Improvvisamente incontriamo la grande porta della città antica, prima di attraversarla alcuni di noi fotografano dei grossi massi e dei canali che probabilmente servivano a portare l’acqua.

Ed è il momento della foto di gruppo sotto il portale dell’entrata sud della città. Per più di un chilometro a destra e a sinistra attraversiamo mura diroccate e ci rendiamo subito conto della enorme estensione del territorio occupato dalle mura di questa antica cittadina di nome Mamerto.

Il tempo ed il terremoto del 1783 hanno determinato uno sconvolgimento del luogo, ai confini della città da un lato e dall’altro ci sono strapiombi, segnale che il sisma ha tagliato in due il territorio facendo sprofondare una metà delle mura e creando voragini di nulla! Si intravedono sul terreno le forme delle abitazioni, accanto a mucchi di terra e sabbia si possono trovare cocci di pietra o di utensili risalenti ai vari periodi storici, sempre dentro le mura è stato rinvenuto la forma di un convento con un chiostro ed un profondo pozzo che probabilmente forniva acqua a tutte le genti. Quante popolazioni hanno abitato questo luogo? Quante civiltà hanno attraversato questo territorio? 

Sarebbe interessante un domani poter rispondere a queste domande che attraversano logicamente la nostra mente. Intorno si respira un’aria di silenzio, ma nello stesso tempo, con grande fantasia, si ascolta il vociare delle genti vissute in questi luoghi! Fuori delle mura, attraversata la porta nord si erge un castello diroccato, all’interno le piante di ulivo e di limoni sovrastano le mura ormai decadenti; eppure in cima alla torre si contempla un paesaggio bellissimo, da dove si domina tutta la vallata.

I padroni del castello quanti passanti avranno visto da lassù? A quante battaglie avranno assistito… forse non lo sapremo mai! Iniziamo la discesa dal versante nord della città, dopo quasi un chilometro ci imbattiamo di nuovo in dei reperti antichi, la località è denominata Mella.

Entriamo in un sito archeologico, e questa volta vediamo un’antica strada romana, molto probabilmente è la Popilia che faceva da collegamento tra il Sud e Roma, larga più di otto metri scende verso la valle, ma ad un certo punto si interrompe di colpo sempre per gli squarci del terremoto. Sono le ore 15.30, non possiamo fermarci più a lungo, dobbiamo raggiungere l’altro versante della vallata, perciò scendiamo fino alla fiumara Calabretto. Nello scendere attraversiamo prima grosse piante di ulivo, con reti sparse dappertutto, dopo, più giù, la vegetazione si fa più fitta, con rovi, piante di ogni genere, attraversatele si presenta davanti a noi una specie di paradiso terrestre con alberi incontaminati, piante di tutte le specie ed una fiumara con acque limpide e calde che dobbiamo attraversare. Un raggio di sole illumina questo luogo baciato dal silenzio. 

Dopo aver attraversato il fiume inizia la salita dell’altro versante. Stanchi ma soddisfatti giungiamo alla macchina intorno alle ore 19.00. Abbiamo camminato circa sette ore prima di raggiungere la città. Ci rifocilliamo tradizionalmente a Barritteri con una birra fredda e delle noccioline.

Rientriamo avendo negli occhi e soprattutto nel cuore il ricordo di quei luoghi mitici! 

UNA NUOVA AVVENTURA

di Lilla Sturniolo

Stamattina un dolce sole sorride. Siamo al 29 di giugno e si parte per vedere altri luoghi che non ho mai visitato. Mentre attendo i miei compagni che, gentili come sempre, passeranno a prendermi, penso che anche qui sia il bello di un’escursione: questo senso di attesa, di quello che vivremo immersi nella bellezza della natura, un mistero che si rinnova.

Arrivano e partiamo in direzione di Mammola, dove ci riuniremo al resto della comitiva. Nel paese c’è un’area giochi per bambini e, dato che l’hanno fatta apposta per noi, è difficile resistere.

C’è chi zompetta tutto contento sul ponte mobile dell’immancabile casetta di legno, chi va sullo scivolo o l’altalena; naturalmente saremo immortalati a futura memoria da una serie di foto che impietosamente finiranno sul sito tipo Blob del Gruppo.

C’è infatti il Capo dei capi che è armato di fotocamera e per tutta l’escursione farà a ciascuno di noi un servizio fotografico degno di una cerimonia di nozze; sorride anche lui davanti ai nostri volti ed al nostro spirito bambino che si diverte. Intanto gli altri arrivano e per una strada accidentata arriviamo al pilone n. 24 della Limina, sul letto sassoso ed asciutto del Torbido, dove lasciamo le macchine. Qui avviene anche il cambio fatidico delle scarpe.

Guardo laconicamente le mie scarpette da ginnastica, anche stavolta niente scarponcini, non c’era il numero. Non spero nella promozione, ma almeno in una sufficienza stentata. Niente da fare: insufficiente, accidenti; parto lo stesso, confidando nell’aiuto misterioso del santo degli escursionisti maldestri. Se ce n’è uno, dev’essere il mio patrono.

Il caldo sta diventando opprimente ed il biancore dei sassi acceca. Presto passiamo dalla sterpaglia brulla e secca di rovi ad un bosco di lecci e di altra macchia mediterranea. La salita continua e sono così esperta da essere il fanalino di coda della compagnia.

Il Capo mi ha prestato il bastone per non scivolare, ma l’erta in alcuni tratti è ripidissima. Sudiamo, siamo impolverati e ci stiamo stancando parecchio, ma allora perché sorridiamo sotto la sferza  del caldo e ci scambiamo scherzi e parolette allegre? Saremo tutti matti? Se si potesse sentire il ritmo pulsante del nostro cuore, la gronda continua del sudore che ci appesantisce gli abiti, nessuno darebbe una lira (o un euro) a favore della nostra sanità mentale.

Due degli uomini si denudano dalla cintola in su: parte immancabile una serie di battute feroci all’indirizzo dei due “machos” che continuano indisturbati a camminare. Siamo tutti molto stanchi e si decide una breve sosta. Gli zaini vengono abbandonati, c’è chi si sdraia in vero stile british, con gambetta accavallata e chi si butta distrutto per terra.

Poco prima  abbiamo fatto un incontro: è un uomo menomato, col quale uno dei capi scambia qualche parola sul sentiero. Ci parla con semplicità del suo incidente, i suoi occhi esprimono un dolore immane, ma possiede quella dignitosa fierezza tipica dei veri calabresi. Il suo viso sembra scolpito a colpi di accetta, la stessa che ha lì buttata in un angolo. Lo salutiamo ringraziandolo e proseguiamo. L’infernale salita sembra non finire, ma un barlume di azzurro comincia a svettare fra gli alberi: stiamo per rivedere il cielo, la cima non è lontanissima, mi spiegano. La marcia è pesante, ma la forza dei miei compagni mi dà forza. E’ il gruppo a spuntarla sulle difficoltà della montagna e sinceramente credo che sia questa l’avventura più straordinaria, la più bella: questa fraternità accogliente dove nessuno è solo, dove non ci si dimentica del più debole o del più imbranato (io). Il sentiero è così impervio che uno di noi deve fermarsi: in realtà lo portiamo con noi durante tutto il percorso, ed il nostro pensiero, il cellulare (che purtroppo non prende) vanno sempre a lui.

E’ bello sapere che ci sono persone così. E, in fondo, se il cielo di notte è bello è proprio perché non c’è una sola stella che brilla, ma tante, tutte uniche ed irripetibili a loro modo, come lo è ognuna delle persone con cui sto camminando adesso.

La cima! Sotto di noi corre la Limina con le auto che vanno e vengono dalla seconda galleria; di fronte a noi, sovrastante una faglia franata, c’è il monastero di San Nicodemo. Alcuni di noi sostano per una foto: dietro di loro, l ‘abisso di un’altezza di circa seicento metri.

Sono sospesi sulle rocce a strapiombo come inconsapevoli divinità senza ali. Il cuore batte forte, ovunque io guardi, ci sono vette e picchi di montagne, il cielo azzurrissimo ed il vuoto, un panorama da capogiro. Soffro di vertigini, ma m’impongo di resistere ed il battito cardiaco accelera: è tutto così bello!

Gli automobilisti che corrono su quella strada che scivola sotto di noi, sapranno mai di questa felicità? Di questa libertà d’immenso e di luce? Chi è il vero matto adesso?

I capi decidono una sosta presso un rifugio forestale che raggiungiamo con grandissima fatica; stiamo salendo ancora e tra poco il monastero rimarrà più basso rispetto a noi. Finalmente si arriva. Ci troviamo davanti ad un piccolo pergolato fresco, il vento ci ristora, un filo d’acqua rinfresca la pelle cotta dal sole. I sedili sono tronchi d’albero e c’è un gran tavolaccio, ma noi vi prendiamo posto simili a guerrieri stanchi e meritevoli di riposo e questa è la splendida sala del nostro Walhalla, aperta su gole e valli che si perdono in un bianco orizzonte di nubi.

Abbiamo traversato da oriente ad occidente l’Appennino calabrese e ora ci recheremo al castello medievale di San Giorgio Morgeto. Vi arriviamo per un sentiero seminascosto di pietre squadrate, perse nel folto, ed una fonte ci disseta. Reca una statuetta di Maria SS.ma di Polsi, la potente Madonna della Montagna, che è un po’ nel cuore di tutti i calabresi di questo versante. Alcuni di noi fanno dei versi strani al contatto dell’acqua fredda, un altro si era appeso al codino di capelli delle piume raccolte per caso, cosa non fa il caldo.

Stiamo scendendo. Ecco le mura possenti del rudere. San Giorgio Morgeto è davvero bello, come mi avevano detto. Se ne sta abbracciato alla sua montagna come un bimbo a sua madre. La visuale dall’alto delle mura diroccate apre ancora verso le valli intorno. Ma il paese, il paese e la gente sono incredibili. Li salutiamo scendendo lungo i gradini che cingono tutto l’abitato e ci rispondono con un sorriso disarmante a cui è unita quella cortesia della buona gente di un tempo che qui pare immobile. Entro nella Chiesa Madre ed un gruppo ligneo affiora dalla semioscurità: il Cristo è di una bellezza grande e quieta, molto virile. C’è la piccola piazza, ci sono i suoi anziani, la fontanina che zampilla. C’è anche il bar, con birra e patatine: sparisco dietro un gelato di 80 kg che mi viene gentilmente offerto ed intanto vedo i miei compagni sorridere e chiacchierare. Mi fa bene vederli così.

Beh, forse ancora non lo sanno, ma la cosa più bella stavolta sono stati proprio loro. Sanno orientarsi, conoscono i nomi delle piante e degli uccelli, leggono le cartine con una disinvoltura che io non avrò mai: sono i figli generosi di una terra difficile, indimenticabile e forte come le sue montagne. 

VENTO D’ORIENTE

di Sandro Casile

Arriviamo di buon’ora, ad accoglierci non c’è il corpo di guardia e le strette viuzze e la piazza d’armi non sono animate dallo scalpitio dei cavalli. Nei palazzi nobiliari non si aggirano i rampolli degli Aragona, degli Stayti e dei Carafa, e nelle più modeste abitazioni nessuno aspetta il capo famiglia che, all’imbrunire, “vertula” in spalla, rientra dalla sottostante fertile campagna.

Non si avverte più la musicalità delle preghiere dei monaci basiliani, sospinti in questo luogo dal vento iconoclasta d’oriente, né il profumo magico dell’incenso. Negli asceteri, umide grotte scavate nel tufo, sono ormai pochi i resti policromi degli affreschi sacri. L’antica Brancaleone vive da tempo in austera solitudine sfidando il trascorrere del tempo e le intemperie.

E’ il 29 marzo e siamo in 20, più numerosi degli ultimi abitanti che, negli anni cinquanta, accarezzarono per l’ultima volta le loro case prima di trasferirsi al mare inseguendo speranze, sogni e illusioni.

Ci aggiriamo silenziosi tra i resti del borgo e ripercorriamo le tappe della sua storia seguendo il racconto di una di noi. Soffia il vento di sud-est, il temuto scirocco, che porta con sé le polveri del deserto e il sordo rumore delle onde dello Jonio. Una decina di cicogne si attardano a volteggiare sopra le nostre teste disegnando indecifrabili linee nella grigia patera del cielo fino a quando, ricevuto il segnale, si allineano per dirigersi a nord. Ne traiamo buoni auspici e riprendiamo il cammino lungo il sentiero, punteggiato dalla fioritura spontanea di primavera, che ci conduce alla basilica di Santa Maria dei Tridetti.

Il sentiero, oggi percorso prevalentemente dai bovini in cerca di erba da masticare, è lo stesso che praticarono, ben prima dell’anno 1000, le popolazioni di quelle contrade rese fertili dalle tecniche innovative introdotte dai monaci d’oriente.  L’ultimo tratto, ripido e con fondo incoerente, a causa dello stato di abbandono, crea non pochi problemi di equilibrio ad uno di noi che, efficacemente aiutato da alcuni e sfotticchiato dagli altri, arriva felicemente al luogo prescelto per la sosta, nei pressi della basilica di S. Maria dei Tridetti, oggetto, negli ultimi anni, di un discutibile restauro.

Consumiamo la colazione, una di noi legge la scheda che ci parla del monumento e della sua sorprendente struttura architettonica, mirabile sintesi della cultura bizantina e normanna, che non trova riscontro nell’intera regione. Apprendiamo particolari, anche, piccanti, sulla vita dei monaci che di quella basilica e del vicino convento, di cui non rimangono tracce, fecero un centro di preghiera e di opere che hanno influenzato la vita sociale e culturale del tempo. Godiamo, per qualche minuto ancora, dello splendido isolamento in cui ci troviamo, percepiamo l’atmosfera misteriosa e sacra che avvolge il luogo, poi riprendiamo il cammino.

Ci dirigiamo verso le alture che si affacciano su Bruzzano Zefirio e la fiumara di Bruzzano oltre la quale, avvolta nella foschia, si intravede Rocca Armena, la nostra meta. Discendiamo i verdi declivi, adibiti a pascolo, decifrando, passo dopo passo, il percorso più agevole per guadagnare, senza fatica, la fiumara nei cui pressi, in un agrumeto apparentemente abbandonato, alcuni di noi assaporano succulenti mandarini. Il terreno non ha ancora smaltito le piogge degli ultimi mesi e così la fiumara di Bruzzano, che di norma in questo periodo è poco più che un rigagnolo, scende impetuosamente.

La attraversiamo avventurosamente, ciascuno con metodo del tutto personale, ma tutti o quasi siamo costretti ad una breve sosta per alleggerire le scarpe invase dall’acqua. Siamo euforici, non avvertiamo quasi la fatica, e c’è perfino chi ha la forza di saltellare, braccia al cielo, tra le alte fioriture che invadono un campo non più coltivato. 

Una scala a gradoni, scavata nel tufo, ci conduce al castello, edificato sulla Rocca Armena tra il finire del X e gli inizi del XI secolo. Ci aggiriamo tra le strutture difensive, le dimore nobiliari, con annessa cappella, e i ruderi delle abitazioni e anche qui c’è chi racconta, con dovizia di particolari, la storia di questa singolare formazione di arenaria che fu feudo del Marchese di Busca, dei Marchesi Ruffo, degli Aragona de Ajerbe, dei Carafa di Roccella e anche quartier generale dei Saraceni.

Concludiamo l’escursione presso l’arco trionfale dei Carafa, posto al confine orientale dei ruderi di Bruzzano Vecchio, sotto la Rocca Armena. L’arco, impreziosito da affreschi raffiguranti elementi floreali e stemmi nobiliari, denunzia un forte degrado degli intonaci e della struttura muraria ed è destinato, in assenza di interventi conservativi, a divenire rudere tra i ruderi.

Prima di riprendere la via del ritorno ci accomodiamo sulle gradinate di un piccolo anfiteatro, vogliamo godere appieno della sensazione di benessere interiore che ci pervade. Confrontiamo le esperienze individuali e una riflessione ci accomuna: è mai possibile che in un giorno festivo, nell’arco dell’intera giornata, in un territorio vasto e ricco di emergenze storiche e culturali, non si incontri, lungo la strada, anima viva? E’ possibile! Accade qui quello che accade a Precacore e a Roghudi, a Mamerto e a Bianco antica, ad Africo e Casalnuovo, a Canolo, a Potàmia, a Taureana e in tutti gli innumerevoli luoghi dove è stata scritta la storia di questa terra.

Sono pochi, troppo pochi, quelli che conoscono la propria terra e coltivano le proprie radici. In tempi di crisi economica, sociale e, soprattutto, morale, popoli e governanti si ritrovano e si riconoscono nei valori condivisi della loro storia e delle più alte tradizioni, da quelli ripartono per costruire il futuro.

E’ di tutta evidenza che noi calabresi riteniamo di potere fare a meno della nostra e storia e del nostro futuro.

VIAGGIO D’AUTUNNO

di Lilla Sturniolo

Rieccoci. Questa volta l’Aspromonte ci parla con la sublime vetta di Montalto.

Vi arriviamo per gli inconsueti, misteriosi verdi viali che le nostre guide ci invitano a percorrere.

La pace che respiriamo e l’umidore fresco che emana dal fogliame ci fa un po’ rabbrividire. E’ il 26 d’Ottobre, una domenica, l’ennesima, di un’escursione breve ma intensa. La poderosa salita iniziale comincia da subito a temprare il corpo; lo spirito ancora non ha parole sue e voli, ma solo la folla di colori, lo stupore ripetuto del bosco d’autunno.

Siamo circondati da un incanto fiabesco di miliardi di policromìe rosse, rugginose, pallide e fragili. Nevicano su di noi come lievissima pioggia. E sono le dita leggere del vento che solleticano l’arpa adagiata su di ogni ramo.

Questa estrema dolcezza autunnale è struggimento, abbandono e contemplazione.

A volte la nebbia dipana il suo velo di fata; appare e dispare improvvisa, negli anfratti più oscuri del bosco, fra gli albi sassi ricoperti d’un muschio smeraldino e vivo. A volte, copre misericordiosa tutto intorno e di colpo non v’è più terra, né cielo: un infinito mistero ci abbraccia col suo silenzio bianco. Da alcuni scorci la vediamo salire con le sue diafane ali e perdersi verso un cielo indecifrabile, portandosi via gli ultimi residui di ciò che erano i nostri pensieri, le preoccupazioni moltiplicate dalla nostra cecità, il dolore. 

La terra madre ci rigenera nel fitto del suo ventre ricco e lussureggiante di armonie irripetibili, tanto sono soavi. Camminiamo, e non importano le salite, il respiro corto, il sudore: tutto è serenità e quiete, adesso noi siamo solo questo.

Arriviamo in vetta, accolti dalle braccia del Redentore. Come noi, avanza col Suo passo di viandante. E’ un fratello che reca la Sua croce, il Suo vessillo ed il Suo tormento, simile a quello che ognuno di noi reca custodito nel cavo cristallo del cuore.

A poca distanza dal celeste Viaggiatore, la Pietra del Gea: un blocco strappato alle asperità di Leucopetra e cinque cerchi concentrici di bronzo, con una splendida cuspide a stella. E’ una rosa dei venti, per non smarrire la via, per trovare la strada giusta, per aprire un passaggio che prima di tutto è Aspromonte, poi Calabria, e Mediterraneo ed Europa e mondo. Sette stelle sono incise sull’ultimo cerchio, a Nord: il Carro e la sua stella polare, per chiunque, giunto fin qui, volesse sollevare lo sguardo e non sentirsi completamente perduto.

E il cielo d’Ottobre vuole donarci ancora, attraverso queste sue nubi vaporose, sprazzi eterei di luce grigio-opalina. Mentre lo guardo, l’immensità mi discioglie e non riesco più a percepire alcuna parola. L’azzurro è così puro… Cerco con tutte le mie forze il silenzio della selva, ed il mio. Ora si, tutto tace in noi, siamo protesi solo all’ascolto di quanto ci circonda.

Ed è allora che lo spirito umano diventa la tiepida carezza del vento, la danza volteggiante delle foglie, il frullare improvviso delle ali di un uccello ed il suo verso canoro.

Ora lo sguardo scopre, simile al volo dei rapaci, lo strapiombo dei massicci che fa intimorire e gioire per quel nostro essere così piccoli, così poca cosa dinanzi a quel vallo colossale.

La ripida e tortuosa discesa fino ad Oppido si compie in quello scenario grandioso, dove i monti dominano ed il cielo d’acqua scende piano in piccolissime gocce su di noi. 

Come non amarti, come poterti obliare mai, ardita terra di Calabria? 

PRIME IMPRESSIONI DI UN ESCURSIONISTA

di Lilla Sturniolo 

Non sono mai partita per una vera e propria escursione. Non so esattamente cosa attendermi, ma appena dalla curva spunta la macchina del capo-escursionista, scorgo al suo interno dei volti tranquilli.

Salgo, diretta verso un luogo che non conosco affatto. Saluto tutti e mi accolgono dei sorrisi, una stretta di mano. Nel tragitto si chiacchiera di tante piccole, belle cose: di giardinaggio, dell’orticello che sta per partire sicuramente alla grande, dei programmi per l’estate incipiente. 

Dopo un po’ arriviamo al posto designato per il cambio delle scarpe: capisco che si tratta di un momento importante, una sosta che ha in sé qualcosa di mitico, un po’ come un’ouverture prima di una grande esecuzione.

Sfortunatamente, i miei mocassini a tacco alto sono veramente il massimo del minimo per l’occasione. Mi dò mentalmente dell’imbranata, ma ho dei seri problemi a calzare le scarpe da trekking perché la pelle dei miei polpacci pare refrattaria all’imbottitura.

Tutti gli altri sono ben equipaggiati ed abbastanza sicuri, hanno le idee molto chiare mentre mi suggeriscono fraternamente di evitare di fare una scelta così infelice la prossima volta. Si scherza un po’, cerco di memorizzare i nomi ma so già che anche questa sarà un’impresa; la loro sicurezza m’infonde sicurezza. Finalmente si parte davvero.

Tutta la comitiva si avvia dietro le orme dei “capi”. Mentre si cammina, si prova una sensazione indefinibile: si è da soli ma senza esserlo davvero perché ci sono gli altri, ed è bello che ognuno di loro ci sia, con le sue caratteristiche.

La natura è intorno a te, ti abbraccia e la respiri, la mente a poco a poco abbandona come un vecchio ormeggio senza senso tutte le sue preoccupazioni. I pensieri neri, tutti gli affanni si attenuano nei colori delicati del cielo, nel verde delle piante e degli alberi, nella solida consistenza della terra. Non importano le salite, i dirupi, il sudore o la stanchezza, il senso di libertà e di quiete è impagabile.

C’è tempo solo per contemplare, ammirare, accogliere la vita di tutte le cose intorno, le montagne, l’acqua dei torrenti. Che delizia, l’acqua. Attraversiamo il piccolo corso di un ruscello e molto coscienziosamente mi tolgo scarpe e calzini: è una vera gioia sentire il tepore dell’acqua sui piedi. Molti di noi sorridono, qualcuno fa delle smorfie ridicole, ma in realtà la cosa pare essere gradita proprio a tutti. Ma, per me, la sorpresa autentica, era arrivata quando abbiamo raggiunto la meta vera e propria dell’escursione. Mentre stavo salendo con gli altri per un’erta leggera, dopo una solenne foto di gruppo sotto un antico portale, ecco la meraviglia: un’intera città antica si apre davanti ai miei occhi. Sono quasi senza fiato per lo stupore e l’incanto della scena che sto contemplando.

Ho visto tanti posti al mondo, ma qui è diverso.

Un cielo rannuvolato e trafitto a momenti dal sole illumina delle antiche rovine biancheggianti nella tenue luce del meriggio. Archi di rami d’ulivo splendenti abbracciano le mura; il vento fa oscillare dolcemente le chiome d’argento degli alberi.

Il silenzio e la leggera carezza del vento avvolgono tutte le cose. Sembra un quadro romantico, di Friedrich o di Fussli, con le rovine che parlano di una nobile eternità e di un passato insigne: è Medma, l’antica città dei coloni locresi. Mi viene da pensare che forse davanti ad uno spettacolo come questo sia stata scritta l’”Ode su un’urna greca”; ma qui è anche il cielo ad essere così straordinario, oggi. Coperto di nubi basse sembra minaccioso, invece poi l’aria è dolce, il sole riappare e tutto è luce. Mi sento grata alla sapienza di quei grandi antichi; li ringrazio per aver scelto quest’angolo di terra benedetta che osservo in pace. Seguo i miei compagni, ma quello spettacolo non mi abbandona più e lì decido: è stato un bene essere giunta qui, con queste persone. Chissà se sarò mai una buona escursionista, magari ci provo, magari senza mocassini. (Escursione del 15.6.2008).



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